É stato già sottolineato su questa testata che su Aida, una delle più belle e più compiute opere di Giuseppe Verdi, grava, da decenni, una maledizione analoga a quella, per restare in tema egiziano, di Tutankhamon: essere considerata un “colossal” da circo a tre piste, o giù di lì, per spettacoli ciabattoni in arene estive in cui l’apparizione del cammello e, se possibile, dell’elefante è più importante di ciò che avviene nella fossa dell’orchestra e lo strillo (ove non l’urlo) importa più dei “legati” e dei “diminuendo” vocali. In spettacoli all’aperto, sia che ci sia o che non ci sia amplificazione “ambientale”, i concertatori tendono ad una direzione pompieristica e i cantanti a gridare dall’inizio alla fine.
Ho avuto modo, nel lontano 1969, di assistere ad alcune rappresentazioni al Teatro d’Opera Italiano del Cairo (dove nel 1871 Aida debuttò in quanto commissionata da Khedivé in occasione di un doppio evento – apertura del Canale di Suez ed inaugurazione di un teatro all’italiana). L’Opera del Cairo (demolita nel 1972 in seguito ad un incendio e sostituita da un edificio modernissimo) era un gradevole teatro con barcacce e palchetti simile al Valle di Roma per poco più di 850 posti, dove la compagnia viaggiante della Staatsoper unter den Linden (allora l’Egitto sperimentava il socialismo reale della Germania Est) metteva in scena allestimenti minimalisti da “tournée” in Paesi poveri di opere di Berg (comprensibile) e di Orff (curioso in quanto l’autore di “Carmina Burana” è stato il “compositore di corte” nel Reich di Hitler)
Aida è un’opera quasi intimista (con qualche, peraltro limitatissima, concessione ai due eventi per cui era stata commissionata). Verdi vi incorporò alcune delle principali lezioni della “musica dell’avvenire” wagneriana (non aveva ancora assistito alla “prima” italiana, a Bologna, del Lohengrin) ma aveva letto gli scritti teorici di Wagner): soprattutto, l’integrità del continuo orchestrale, la cui ricchezza smagliante, in ciascuna delle sette scene in cui si articolano i quattro atti dell’opera, non è mai interrotta da “pezzi chiusi” (arie, duetti, terzetti) di maniera.
Di recente questa tradizione (meno colossale di quelle convenzionale) è stata in parte recuperata. Ad esempio, nel 2000 l’Opera di Roma e di recente La Fenice di Venezia sono riusciti a fare il “tutto esaurito” rispolverando un’edizione “minimalista”, concepita negli Anni Settanta da Mauro Bolognini (quando John Cox approntava un Aida analoga al Metropolitan di New York).
Altra iniziativa importante quella della Fondazione Toscanini che dal 2000 al 2003 ha portato in giro un Aida quasi come la avrebbe voluta Verdi; il “quasi” è d’obbligo a motivo di alcuni tagli ai ballabili (per ragioni di economia e di trasportabilità). L’allestimento nasce da un’idea geniale di quel diavolaccio di Franco Zeffirelli (autore di regia e scene; i bei costumi sono di Anna Anni), il quale si è spesso cimentato con maxi-Aide. E’ stata pensata per il Teatro di Busseto, la cui platea ha 66 posti (ed altrettanti ne contengono i palchi). Scene dipinte di un Egitto vagamente art déco, una recitazione accuratissima da parte di un cast giovane (se ne alternavano tre) scelto tramite una selezione internazionale, cinquanta brillanti (e giovani) orchestrali, danze ridotte al minimo (ma con Carla Fracci nel ruolo di sacerdotessa). Non era un Aida iconografica: puntava sul dramma d’amore e gelosia (con un’Amneris principessina capricciosa ed impudente) più sul contesto politico-spettacolare. Anche l’organico orchestrale era riportato ai 50 orchestrali verosimilmente in buca al Cairo nel 1871 (non 100 come all’Arena di Verona). Questo allestimento è stato riproposto con successo al Festival Verdi di Parma l’ottobre scorso.
Aida, seconda opera della Trilogia di Ravenna, si ispira in parte a queste esperienze. Il Teatro Alighieri, dove la ho vista ed ascoltata il 6 novembre, ha dimensioni, e buca orchestrale, analoghe a quelle del Teatro cairota ai tempi di Verdi. L’operazione filologica è rimasta a metà. Il team creativo è sostanzialmente lo stesso di Norma recensita su questa testata il 7 novembre: Cristina Mazzavillani Muti per la regia e Ezio Antonelli, Vincent Longuemare, Davide Broccoli, Anna Biagiotti per scene, video, luci e costumi. Ma, sotto il profilo drammaturgico, la rappresentazione è solo in parte filologica. L’opera è divisa in quattro atti, come ai tempi di Verdi, e non in due parti, come si usa adesso al fine di non rendere la serata eccessivamente lunga, Tuttavia, mentre il terzo ed il quarto atto sono ‘intimisti’ nel primo e nel secondo, le proiezioni ricordano messe in scene colossal. Inoltre, tra il primo ed il secondo quadro del quarto atto, viene introdotto un lamento funebre medio-orientale, cantato dal mezzo soprano Simge Buyukedes che, per quanto bello ed interessante in sé, ha lasciato me e numerosi altri spettatori perplessi.
Andiamo alla parte più strettamente musicale. I complessi Cherubini sono concertati da Nicola Paszkowski, un direttore di classe già ascoltato più volte a Ravenna ed altrove. Il coro è guidato da Antonio Greco. L’equilibrio tra buca e palcoscenico e le sonorità sono ottime: si mormora che alla preparazione dello spettacolo ed ad alcune prove abbia preso parte anche il creatore della Cherubini, Riccardo Muti, che ha diretto di recente splendide versioni di Aida a Chicago ed a Salisburgo.
Buoni, in generale, gli interpreti. Amneris è la giovane brasiliana Ana Victória Pitts, un mezzo di grandi capacità vocali ed attoriali; la sua carriera italiana è agli inizi ma sono certo che ne sentiremo parlare. Radames è Azer Zada di Baku, anche lui all’inizio della carriera con un ottimo registro di centro ed un poderoso volume. Amonasro è il romeno Serban Vasile già noto ed apprezzato in Patria. Andrea Vittorio De Campo (Ramfis), Adriano Gramigni (il Re) e Maria Paola Di Carlo cantano da anni in “teatri di tradizione”.
E la protagonista? Aida è la lituana Monika Falcon. Non grande presenza scenica e tendenza a spingere eccessivamente sugli acuti.
Teatro esaurito.