Il viaggio Disney per spostare i propri interessi in Oriente prosegue dopo il non riuscito approdo in Cina di Mulan (parecchio criticato proprio dove nacque la leggenda della guerriera) e Raya e l’ultimo drago cerca di riuscire dove l’altro ha fallito, ossia nel reinventare il wuxiapian, il film di spadaccini e avventure “mitologiche”.



Per farlo i registi  Don Hall e Carlos López Estrada, insieme ai co-registi Paul Briggs e John Ripa, hanno spostato l’avventura nel sud-est asiatico e rimescolato leggende locali per raccontare di una terra chiamata Kumandra, un tempo unita e ora spezzata in cinque regni minacciati da mostri che trasformano gli umani in statue: per poterli sconfiggere e riportare le persone alla vita dovrebbero riunirsi e riunire le pietre del potere, ma gli odii ormai sono diventati atavici. Raya, aspirante guerriera, e Sisu, l’ultimo drago rimasto, cercheranno di portare a termine la missione.



Adele Lim e Qui Nguyen mettono insieme rimandi e suggestioni della mitologia orientale con le strutture narrative del grande racconto fantasy e un tocco post-apocalittico e cercano di adattare lo schema standard dei recenti film Disney a un’intenzione educativa più al passo coi tempi: Raya e l’ultimo drago è un film d’azione e spettacolo costretto quindi a guardare in più (troppe?) direzioni con il rischio di diventare strabico.

Le esigenze economiche e produttive che impongono l’attenzione ai colossi orientali (tra le poche aree in cui i cinema sono aperti e, in Cina almeno, permettono grandi incassi; nel resto del mondo il film sarà su Disney+ a pagamento per tre mesi e poi gratis nell’abbonamento) diventano anche un modo per coinvolgere e valorizzare talenti di origine non-americana, come gli sceneggiatori o gli interpreti della versione originale (le attrici Kelly Marie Tran e Awkwafina), la rivoluzione femminile nell’industria cinematografica permette alla storia di diventare un inno alla solidarietà femminile come collante del mondo intero, senza però farne un pretesto o un grimaldello politico, ma mettendola in scena, mostrando senza dimostrare, raccontando una storia di donne che combattono per cause giuste o sbagliate, in cui la parità è già un fatto di cui il film mette in scene le positive conseguenze. È anche, soprattutto, un film post-populista (ammesso che l’ondata dei sovranismi mondiali possa dirsi spazzata dalla pandemia), il cui il virus da combattere è la sfiducia nell’altro, in cui il vero obiettivo è dare una possibilità ai giovani di rimediare agli errori dei padri.



Dal punto di vista del messaggio è uno dei Disney più interessanti degli ultimi anni, da quello cinematografico soffre l’estrema convenzionalità del racconto e la ricerca di una contemporaneità di ritmo, immagini, toni in cui il limite tra dinamismo e frenesia è spesso scavalcato, ma riesce a soddisfare le richieste di stupore visivo, grazie un meraviglioso lavoro tecnico e di animazione, a notevoli momenti di poesia visiva (come il volo nella pioggia) e al caro vecchio cinema di papà Spielberg che, grazie a Indiana Jones ed epigoni, fornisce più di uno spunto all’avventura.

È un film la cui ricerca di contatto tra il fascino di ieri e l’urgenza di oggi a volte stona, ma che se non ci si cura troppo dei difetti (e se visto su schermi adeguatamente ampi) può regalare un paio d’ore soddisfacenti.

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