La sortita del ministro Orlando relativa all’intenzione di estendere la partecipazione degli immigrati al reddito di cittadinanza era ampiamente scontata. Tutte le analisi svolte sull’attuazione del provvedimento concordano sul fatto che il criterio dei dieci anni di residenza in Italia per poter beneficiare delle prestazioni avrebbe comportato una rilevante riduzione della potenziale platea degli immigrati extracomunitari poveri.
Rispetto ai numeri delle persone e dei nuclei familiari in condizione di povertà assoluta, evidenziati dalle indagini dell’Istat, la partecipazione effettiva degli immigrati risulta più che dimezzata rispetto allo specifico potenziale di persone povere. Sulla base delle stime effettuate dal centro studi Itinerari Previdenziali, il tasso di partecipazione effettivo risulta del 12,8%, rispetto al 26% stimato dall’istituto di statistica, con l’esclusione di fatto di almeno 360mila nuclei familiari, 250mila minori a loro carico, e una riduzione dell’impatto del provvedimento nelle regioni del Nord Italia per 220mila famiglie, dato che due terzi degli immigrati poveri risultano residenti in quelle aree.
Il vincolo dei dieci anni di residenza in Italia, unitamente all’obbligo per gli extracomunitari di certificare il valore dei patrimoni posseduti nel paese di origine, era stato introdotto dal governo giallo-verde per l’evidente obiettivo politico di limitare la partecipazione degli immigrati e di risparmiare nel contempo una quota di risorse finanziarie da destinare all’obiettivo di mantenere più elevato il valore del sussidio da erogare anche alle singole persone per avvicinarlo ai 780 euro mensili promessi in campagna elettorale.
Il vincolo della residenza, anche se furbescamente esteso anche ai cittadini italiani per evitare un’eventuale procedura di infrazione europea per la mancata attuazione delle Direttive Ue in materia di diritti sociali degli immigrati, rimane comunque esposto a questo rischio.
Quello relativo alla certificazione dei patrimoni nei paesi di origine, palesemente inattuabile per l’impossibilità di certificare questi valori, è stato successivamente superato con l’intervento di un decreto attuativo interministeriale.
Durante la pandemia Covid l’introduzione del reddito di emergenza, tuttora in corso, ha esteso i criteri di accesso a tutte le persone regolarmente residenti, immigrati compresi, e allargato le maglie dei requisiti di reddito e patrimoniali. Rimediando in modo significativo, anche se provvisorio, a una parte del problema. Per il reddito di emergenza la quota di partecipazione degli immigrati aumenta al 35% sul totale delle domande accolte.
L’introduzione dell’assegno unico per i minori a carico delle famiglie fiscalmente incapienti regolarmente residenti in Italia, a partire dal 1° luglio 2021 (170 euro mensili, che diventano 220 euro nel caso di 3 o più minori), rappresenta per la gran parte dei nuclei familiari degli immigrati, e non solo quelli in condizioni di povertà assoluta, un contributo al reddito molto consistente e, per molti aspetti, persino superiore al reddito di cittadinanza.
Per l’insieme di queste ragioni, e delle novità intervenute, il tema dovrebbe essere affrontato non in termini di mera estensione del reddito di cittadinanza agli immigrati, ma di razionalizzazione dello stesso impianto del provvedimento. Se non altro in relazione al fatto che l’assegno unico per i minori a carico viene previsto per tutte le famiglie incapienti, comprese quelle che continuano a beneficiare del reddito di cittadinanza.
Per lo specifico dei cittadini extracomunitari, due sentenze della Corte di giustizia europea hanno imposto all’Italia l’obbligo di erogare gli assegni familiari anche per i minori a carico rimasti nei paesi di origine sulla base del principio di non discriminazione, dato che tale previsione è vigente nel nostro ordinamento anche per i genitori italiani che hanno figli all’estero.
Per molti paesi di origine degli extracomunitari l’importo dell’assegno unico equivale a uno stipendio di un lavoratore e possiamo di conseguenza immaginare cosa potrebbe comportare l’estensione acritica di questi provvedimenti sulle politiche per l’immigrazione.
Il reddito ufficiale dei lavoratori immigrati regolarmente presenti in Italia risulta sottovalutato, dato che buona parte di loro è costretta a convivere con mercati del lavoro caratterizzati da ampia quota di lavoro sommerso. Tema che richiama la palese necessità di rafforzare i controlli preventivi e ridurre l’ampia quota di prestazioni del Rdc rilasciate sulla base di autocertificazioni.
L’evidente condizione di povertà assoluta e relativa delle famiglie immigrate, ampiamente documentata dall’Istat, dovrebbe suggerire a buona parte degli esponenti della sinistra italiana di prendere in seria considerazione il tema di come rendere sostenibile la condizione lavorativa e di reddito della popolazione immigrata residente in Italia, anziché teorizzare la necessità di ampliare i nuovi flussi di ingresso di manodopera non qualificata e di ampliare nel contempo i provvedimenti assistenziali per compensare le carenze dei redditi degli immigrati.
Ma evidentemente la necessità di valutare l’impatto complessivo delle proposte di sostegno al reddito sulla spesa pubblica, nel mercato del lavoro, e sui comportamenti delle persone (nella fattispecie anche per le politiche dell’immigrazione) non riscontra le sensibilità dell’attuale ministro del Lavoro.
L’importante è ampliare la platea degli assistiti, saranno altri a pensare come mantenerli.
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