29 maggio 1608, 1 novembre 1610. A fronte di un anniversario da poco concluso – quello della canonizzazione di santa Francesca Romana (1608) –, se ne apre quest’anno un secondo, certo non meno coinvolgente per i suoi risvolti di interesse ampio e condiviso. Al significato della canonizzazione di Carlo Borromeo, così ravvicinata nel tempo rispetto alla prima e per molti versi all’altra accostabile nelle sue istanze più profonde, introduce ora in modo agevole il volume, fresco di stampa, che ha curato Danilo Zardin [La vita e i miracoli di san Carlo Borromeo tra arte e devozione: il racconto per immagini di Cesare Bonino, Jaca Book, 2010].

Legittimato da papa Paolo V, l’innalzamento agli altari della santa “romana” e del cardinale arcivescovo di Milano costituisce il frutto maturo dell’unico percorso ormai definito, dopo le riforme del concilio di Trento, per garantire l’accesso alla santificazione; un percorso divenuto più minuzioso, dilatato nei tempi, disciplinato centralmente da rigide procedure, ma pur sempre in grado di coniugare il dirigismo pontificio e curiale con le più radicate istanze delle diverse realtà locali.

E il ruolo giocato dalla comunità urbana di cui era stato massima e venerata espressione spicca con particolare evidenza a proposito di san Carlo: sia durante l’iter romano, sia nell’effervescente molteplicità degli esiti letterari, artistici e devozionali che ne derivarono. Il culto verso il mai dimenticato arcivescovo aveva conosciuto una vistosa impennata agli esordi del nuovo secolo. I finanziamenti per il processo di canonizzazione erano giunti da ogni dove, seppur amministrati dalla Veneranda Fabbrica del Duomo, che inoltre si assunse gli oneri di predisporre gli apparati nella cattedrale per i magnifici festeggiamenti finali.

In questo fertile ‘cantiere organizzativo’ fu concluso, tra il 1602 e il 1604, il grande ciclo dei “quadroni” da esporre in cattedrale, consacrati alla vita di Carlo Borromeo; mentre nell’arco di pochi mesi, entro il novembre 1610, furono compiute le più piccole tele dedicate ai miracoli dell’ormai ufficialmente riconosciuto santo. Entrambe le serie, in particolar modo la prima, rappresentano un manifesto programmatico, che andava ben oltre gli apparati effimeri della grande cerimonia di una sola giornata trionfale: erano un canone iconografico, quasi certamente definito nei dettagli da Federico Borromeo e da lui più volte riproposto, che intendeva prospettare con autorevolezza a tutto il popolo dei fedeli un racconto agiografico tradotto in vivide immagini.

Fu  un’operazione, quest’ultima, che, mentre impresse una forte accelerazione allo sviluppo della pittura sacra sei-settecentesca, soprattutto, ma non esclusivamente, tra Lombardia e Piemonte, in vista della confezione di cicli dedicati ai santi, titolari di chiese o da poco assurti agli altari, nel contempo si pose quale punto di riferimento imprescindibile, quasi immutabile nel tempo, per una diffusione capillare e seriale delle storie (o “misteri”) di san Carlo.

Numerose, furono, nel medesimo giro di anni, le riproduzioni che ai quadroni della cattedrale più o meno fedelmente attinsero, divenendo così, a loro volta, tramite d’eccellenza per veicolare, all’interno della città ed al di là delle sue mura, un’iconografia didascalica concentrata su episodi esemplari.

Tra questi prodotti a stampa, meritavano di essere fatti oggetto di nuove cure i Nonnulla praeclara gesta beati Caroli Borromaei, cioè la raccolta di tavole incise confezionata nel 1610 da Cesare Bonino, un religioso ministro degli infermi e attivo collaboratore di san Camillo de Lellis: vi compaiono quattro ritratti a tutta pagina di san Carlo, che venivano tra l’altro incontro all’esigenza di diffondere la conoscenza precisa delle fattezze fisiche del nuovo patrono celeste, per renderlo oggetto della preghiera collettiva, insieme ad alcuni componimenti di lode, ma soprattutto 36 tavole dedicate alla vita e 17 relative ai miracoli, molto schematiche, dal sapore naif e quasi fumettistico, glossate da iscrizioni in latino e in italiano.

Mescolando parole eloquenti e semplici messaggi visivi, i Nonnulla praeclara gesta erano in se stessi un esplicito manifesto dell’ampio raggio di utenza al quale il Bonino intendeva rivolgersi e che ben esprimeva quella religiosità fatta “di gesti concreti”, che lo stesso Borromeo aveva contribuito a diffondere.

Spetta a Danilo Zardin il merito di aver riproposto il raro opusculum seicentesco nella sua versione integrale, attraverso una riproduzione fotografica corredata della versione in italiano moderno delle legende e impreziosita da due saggi di commento.

Nell’Introduzione (pp. 7-50), è lo stesso Zardin a contestualizzare l’iniziativa del Bonino entro le complesse dinamiche della vita religiosa e civile della Milano del tempo, riconducendola, inoltre, alla vocazione assistenziale, tipicamente ‘carolina’, della congregazione a cui il Bonino apparteneva, ma anche – ovviamente – al “bisogno di far conoscere in modo semplice e attraente”, attraverso una vera e propria propaganda, la figura di san Carlo, pastore e vescovo esemplare. Fino a condurci, poi, nell’atelier della coppia Bonino/Ronchi (l’uno ‘curatore’/editore dell’opera, l’altro autore delle sue incisioni), alla scoperta della genesi stessa della miscellanea, quindi all’avvio della sua dilagante fortuna nel mondo lombardo e molto al di là dei suoi confini.

Il concreto rapporto tra le incisioni del Bonino e i ‘quadroni’ del Duomo (un rapporto stretto, sostanziato da una quasi assoluta fedeltà verso l’archetipo, ma anche declinato e amplificato secondo istanze autonome) viene, infine, analizzato in dettaglio da Simonetta Coppa (I Nonnulla praeclara gesta beati Caroli Borromaei di Cesare Bonino agli esordi dell’iconografia borromaica, pp. 177-201), che restituisce alla serie di tavole la loro esatta collocazione nel panorama artistico postridentino: un panorama ricco, particolarmente denso nei territori di “frontiera confessionale alpini e subalpini”, avamposto del cattolicesimo in conflitto con la riforma protestante, ma ormai vigorosamente contrassegnato dalla generosa devozione nei confronti del Borromeo. Un esempio paradigmatico? La bella pergamena miniata con storiette caroline offerta al sepolcro del santo, nel 1616, da Charles de la Saussey, decano della chiesa d’Orléans.