«La porta della canonica si aprì e il prete si confuse con la penombra della chiesa. Dei passi stanchi si trascinarono verso l’altare; il corpo si curvò in avanti, il prete salì i tre gradini con fatica. Aprì il messale sul leggio e alzò la testa al tabernacolo. Quando la pupilla si fu abituata all’oscurità, lo sguardo scivolò lungo il muro. Si soffermò sulla destra dell’abside. Improvvisamente la vide, la voragine che occhieggiava dalla parete come un’orribile gola spalancata. Il prete la fissò attonito. I secoli si affollarono in uno stesso istante, aspirati tutti insieme da lontananze immemori, le spalle si curvarono sotto il peso del tempo. I piccoli occhi scuri si riempirono di sgomento, le narici di un pungente odore di copale. La pelle del volto vibrò d’indignazione, ingiallita dagli anni e dalla penombra in cui era invecchiata. Si lasciò cadere in ginocchio, schiacciato da un peso indicibile. Guardò le sante immagini di sempre come se le vedesse per la prima volta; la Vergine schiacciava la testa del serpente al centro dell’altare; un’altra Vergine, quella di Guadalupe, apriva il manto al pentimento dei peccatori. Quante volte vi si era rifugiato! Quante volte aveva deposto la sua ignavia ai piedi di quel pezzo di tessuto misterioso! Quante volte le debolezze mortali della sua esistenza vi avevano trovato soccorso!
Il prete fece un passo in avanti. Le mani tremanti afferrarono il legno dell’inginocchiatoio e lo strinsero. La testa si piegò tra le spalle. Un momento dopo s’eresse altezzosa.
“Dio mio… sono loro. Sono tornati!”, gridò».
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Questo che ho premesso alle poche righe che aggiungo è il prologo di L’ombra dei Guadalupes. Non sto a dire cosa e chi sgomenti tanto l’anziano sacerdote. Attorno a lui, questo posso anticiparlo, avvengono fatti inquietanti: il furto delle ossa di Hernán Cortés, il conquistatore del Messico, una serie di misteriosi assasinii, tutti consumati secondo il rituale aztecas dell’estrazione del cuore, il linciaggio di un balordo. Gli avvenimenti si producono a distanza di poco tempo l’uno dall’altro e in uno stesso quartiere residenziale di Città del Messico nei giorni che precedono il Natale. Sulla scia degli eventi c’è un bizzarro scrittore, che divide il proprio tempo tra un accademico dell’Università nazionale, noto e influente anticlericale, una giovane e bella assistente universitaria, madre di una figlia demente, e una simpatica e colta libraia che colleziona reperti antichi e vecchi libri.
I personaggi del romanzo, e gli accadimenti apparentemente misteriosi e sconnessi che li coinvolgono, si legano tra di loro – una lieve traccia odorosa di coppale è presente sul luogo dei delitti – acquistando piano piano un significato congruente. E del tutto imprevisto, che non è il caso di rivelare per non togliere a chi leggerà il libro la sorpresa finale.
Mi hanno chiesto in molti perché un noir e qual è il “messaggio” di un romanzo così. Alla prima domanda rispondo che il proposito non era di scrivere un romanzo di genere e che la storia – una volta impiantata – mi ha portato in questa direzione, alla seconda con l’incipit che ho posto all’inizio del libro, preso in prestito a un colombiano, Nicolás Gomez D’Avila: «L’unica cosa che amiamo nella vita sono le presenze che l’attraversano come messaggere d’altri mondi». Qualcuna di queste presenze, mi sembra, attraversa le pagine del libro.