Dacché la crisi finanziaria ha iniziato a lambire l’economia globale, si sono moltiplicati i dibattiti relativi al modello economico più idoneo ad affrontare le sfide del Ventunesimo secolo. In particolare, da un lato, ci si chiede (nuovamente) come comporre e risolvere l’alternativa Stato/mercato e, dall’altro, se queste stesse categorie siano ormai obsolete e inadeguate per rappresentare modelli di organizzazione sociale avanzata, in cui si verifica un proliferare di attori a vario titolo deputati a rappresentare posizioni e atteggiamenti meritevoli di incidere sullo sviluppo della vita associata, sul suo stesso governo, e sull’interazione tra istituzioni e forze sociali.
In tutti i casi, il risultato è uno strutturarsi della sfera pubblica secondo argomentazioni più o meno forti che permeano l’atmosfera intellettuale di accademie, centri studi, salotti reali e virtuali, mass media e discussioni della gente comune. Proprio nella pubblicistica italiana è emerso di recente un fenomeno di recupero delle ipotesi di lavoro e delle esperienze storiche legate alla cosiddetta “economia sociale di mercato”, intesa ora come modello continentale di freno al “liberismo selvaggio”, auspice un massiccio intervento dello Stato; ora come ennesima epifania di quella solidarietà tutta europea nei confronti degli “ultimi” – e dunque agitando la socialità come un vessillo ideologico più che come presupposto epistemologico, e riducendola alla solidarietà, dimenticando l’altra gamba del tavolo, la sussidiarietà; ora, infine, come marchio giustapposto a politiche economiche governative non proprio liberali condotte dal governo italiano, da sempre esposto al ricatto neocorporativo dei poteri forti, padronali e sindacali.
A fare però un po’ di chiarezza sulle origini e sull’identità specifica dell’economia sociale di mercato, soccorre ora L’economia sociale di mercato (Rubbettino Editore), conciso ed efficace studio di Flavio Felice, ordinario di Dottrine economiche e politiche presso la Pontifica Università Lateranense di Roma e presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton, uno dei più autorevoli think-tank italiani, la cui mission è approfondire le ragioni e le possibilità empiriche di incontro tra la dottrina sociale cattolica e la prospettiva del liberalismo anglosassone.
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Sulla scorta dei fondamentali studi del grande economista e presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi e del suo allievo Francesco Forte, l’Autore riconduce filologicamente questa misconosciuta ed equivocata prospettiva di indagine al cenacolo di studiosi (giuristi, economisti e scienziati sociali) che, nella Germania nazista, si raccolsero intorno alla guida di Walter Eucken. Questo gruppo assunse il nome di Scuola di Friburgo e la filosofia che la ispirava venne chiamata “ordoliberalismo”, dal titolo della rivista Ordo, fondata dallo stesso Eucken nel 1940. Che questa non sia un’operazione-spot ma un progetto di ricerca con una progettualità molto forte, lo dimostra il fatto che i medesimi Forte e Felice abbiano anche curato una antologia degli autori ordoliberali, uscita nel 2010 sempre per i tipi di Rubbettino Editore, con il titolo Il liberalismo delle regole.
Ebbene, si deve senz’altro a questi lavori se oggi l’asfittico e autoreferenziale dibattito italiano sui “modelli” economici può attingere a impostazioni di grande finezza e precisione come quelle tratteggiate dagli autori di Ordo. Il problema, al tempo stesso storico e filosofico, prima che economico, da loro affrontato è il seguente: è necessario un governo dell’economia? Quali forme esso deve assumere per essere rispettoso della libertà individuale, che è il portato ineludibile del cristianesimo e del liberalismo?
La prima risposta è senz’altro affermativa, scontrandosi con i postulati del libertarismo alla Rothbard e anche con le diverse idealizzazioni di uno “Stato minimo” avanzate dai più spregiudicati teorici del neoliberismo. La distanza dai quali, però, non va misurata solo sulla base dell’inclusione dello Stato tra gli attori economici, quanto piuttosto sulla codifica chiara del suo ruolo di arbitro, di “terzo” imparziale. Più che controllare il mercato, gli ordoliberali auspicano che lo Stato controlli il retto funzionamento delle regole di mercato, contro formazioni monopoliste e oligopoliste che negherebbero appunto il dispiegarsi delle libertà individuali, fra le quali spicca in questo consenso per la sua ovvia rilevanza la libertà di intrapresa economica.
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È per questo che una categoria chiave per comprendere la prospettiva ordoliberale sia quella di “intervento conforme”, relativa allo spazio d’azione per le politiche economiche. Come ben spiega Felice commentando le posizioni di uno dei grandi teorici della Scuola, Wilhelm Röpke, «per “conformi” [si intendono] quegli interventi dello stato che non sopprimono la “meccanica dei prezzi” e “l’autogoverno del mercato”, ma che al contrario si inseriscono in esso, offrendosi come “nuovi dati”, e che possono essere assimilati dallo stesso mercato. Non conformi saranno quegli interventi che distruggono la meccanica dei prezzi, sostituendola con “un ordine economico programmatico cioè collettivo”». E ancora: «Esempi di interventi conformi sono la svalutazione monetaria e la politica dei dazi protettivi, mentre esempi di interventi non conformi sono la calmierazione dei fitti, il controllo dei cambi e il contingentamento delle importazioni. Questi ultimi distruggerebbero il meccanismo che regola la formazione dei prezzi».
Resta che il carattere conforme di un intervento non è ancora sufficiente a renderlo raccomandabile, e che grande spazio vi sia per la creatività dell’uomo di governo e del legislatore, affinché dosando sapientemente questi strumenti e studiando le situazioni contingenti, si possano offrire non già le migliori soluzioni possibili in campo economico, ma le più rispettose del fragile quanto affascinante meccanismo delle “regole della libertà”.
(Maurizio Serio, senior fellow Centro Studi Tocqueville-Acton)