Non è raro che avvenimenti di grande importanza per la storia umana nascano in silenzio, non accompagnati dal clamore di cui il tempo li mostrerà degni. È una dinamica facilmente censibile nell’esperienza personale, che riaccade oggi con la pubblicazione de La caduta di Bisanzio, Jaca Book, Milano 2010, libro di poesia finissima che si candida, parlando con cautela, come il più importante libro di poesia dell’ultimo decennio.

Uomo dal pensiero solido, artista nel senso nobile e antico di facitore, di maestro artigiano, il suo autore, Alessandro Rivali, prosegue in questo volume la meditazione sull’uomo, il tempo e la storia al centro della propria opera d’esordio, La riviera del sangue. Una meditazione che tra le linee offerte da quel primo libro spinge in prevalenza il pedale epico-visionario, attraverso la narrazione delle civiltà in crollo e l’intrecciarvisi dei singoli destini umani.

Trattandosi di un libro appena pubblicato e denso di significati destinati a rivelarsi nel tempo e nella frequentazione, mi limiterò ad accennare qui alcuni dati impressivi e qualche intuizione generale che illustrino l’importanza di Rivali e della sua poesia.

Anzitutto, Rivali è un poeta capace di convertire. Leggendolo, il primo moto è di voltare lo sguardo non su di lui, ma su ciò che lui osserva. La sua capacità immedesimativa con la materia trattata determina come prima reazione il desiderio di una simile immedesimazione con l’oggetto: ciò che guarda, nel modo in cui lo guarda.

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A questo desiderio risponde il secondo aspetto che caratterizza la poesia di Rivali, e prima ancora il suo stesso fare poesia. Rivali accompagna per mano il lettore. Non come lo farebbe un poeta didascalico, tutt’altro; la sua poesia è al contrario fortemente visionaria, carica di immagini allegoriche nel senso eliotiano del termine: cariche cioè di carne e di oltre-carne, di senso e di sovrasenso nel medesimo corpo. Le sue, però, sono visioni scritte-per. Egli è capace di accompagnare perché scrive davanti-a; è profeta, parla-per; non tratta ciò che vede e scrive come proprio, ma lo concepisce «in pro del mondo che mal vive» (Dante, Purgatorio XXXII).

 

Viene da qui l’ultimo dei tratti immediatamente emergenti di Rivali. Dicevo che La caduta di Bisanzio si candida come il libro più importante del decennio appena trascorso. Ma che cosa determina l’importanza di un’opera nel contesto in cui è svolta? La sua bellezza intrinseca, senz’altro; e – direi – la sua capacità di fare scuola.

Ecco: fatta salva la libertà degli eventuali allievi di infischiarsene, la poesia di Rivali offre una bellezza usabile. Rivali forza la lingua e l’immagine senza bruciarle, ma anzi arricchendole, creando usi del linguaggio e delle forme ereditabili dai suoi colleghi poeti e dalla lingua popolare. È quel servizio alla lingua comune a merito del quale Eliot preferiva Dante a Shakespeare: per quella sua trasmissibilità alla lingua del popolo, possibile in virtù della propria fedeltà – anche nella visione – all’esperienza e qui nella sua tensione a viverla, attraversarla e restituirla.

 

La caduta di Bisanzio, in sintesi, è un libro di poesia vera, fatta con sapienza artigiana e amore per il mondo. Un libro che per queste ragioni non è destinato ai soli “esperti”, ma che viceversa mostra come la poesia, linguaggio originario dell’uomo, resti ancora oggi, se trattata con fedeltà, «la forma più rigorosa del pensiero» (George Steiner, Vere presenze).

 

(Daniele Gigli)