Una volta Spinoza ha scritto che chi si sforza di capire le cose naturali «da scienziato» (ut doctus), cessa di meravigliarsi come farebbe un ignorante (ut stultus), il quale ammanta con il nome di stupore il semplice fatto di non conoscere le cause reali del mondo. Per questo, a differenza del «volgo», gli scienziati sanno bene che «eliminata l’ignoranza vien meno anche lo stupore» (Etica, parte I, Appendice).
L’idea spinoziana di una conoscenza perfetta dell’intera realtà nelle sue cause meccaniche – le uniche assolutamente traducibili nelle dimostrazioni della geometria – con l’esclusione tassativa di qualsiasi fine o senso che trascenda quest’ordine, rapresenta un ideale totalizzante, e senza dubbio affascinante, della ricerca scientifica. Un ideale secondo cui la mente umana sarebbe chiamata a contemplare la sostanza oggettiva e necessaria di tutte le cose, ciò a cui lo stesso Spinoza dà nientemeno che il nome di «Dio o natura».
La domanda che si apre di fronte a una tale prospettiva è se effettivamente la meraviglia possa essere intesa come un semplice residuo dell’ignoranza, destinata tendenzialmente a riassorbirsi nella misura in cui vengano scoperte e descritte le leggi oggettive della natura, o se essa non costituisca piuttosto il motore della scoperta e degli sviluppi esplicativi della scienza, secondo una tradizione di lungo corso, che da Aristotele giunge sino alle testimonianze di molti scienziati contemporanei, secondo i quali la strada della conoscenza è spesso aperta dalla meraviglia destata dall’imbattersi in un ordine, o addirittura in ciò che sembra essere puramente “casuale”.
Certo, quando noi ci stupiamo di fronte a qualcosa di inatteso o ancora sconosciuto, portiamo allo scoperto la nostra “ignoranza”: ma al tempo stesso questo indice negativo implica al suo interno un rimando positivo, cioè l’emergenza o meglio la manifestazione di “qualcosa” nella nostra esperienza o di un “dato” nella nostra conoscenza. E se è vero che, da quel primo momento, il lavoro del conoscere sarà quello di impossessarsi il più possibile, mediante le nostre categorie, di questo ospite inatteso, trasformandolo in un acquisto della nostra mente; è altrettanto vero tuttavia che questa “riduzione” del mondo alle nostre strutture mentali (e ogni conoscenza scientifica è sempre tecnicamente “riduttiva” del reale a invarianze, strutture e ricorsività) costituisce essa stessa una fonte di meraviglia. Oggettivare il mondo nelle sue leggi può essere inteso come il segno della potenza del soggetto conoscente, ma anche come il segno di una non scontata corrispondenza del mondo alle nostre misure conoscitive.
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Un recente saggio del linguista Andrea Moro, intitolato Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase (Adelphi) mi ha fatto capire in maniera lampante la vera posta in gioco di questa alternativa, sempre presente nello sguardo di chi si dedica alla conoscenza rigorosa del mondo. Sulle orme del grande Noam Chomsky, Moro ha imparato a guardare, appunto, e a studiare il nostro linguaggio come «il grande scandalo della natura», un punto di «discontinuità immotivata e improvvisa tra gli esseri viventi» (p. 62), non in senso debole, e cioè come espressione di certe rappresentazioni che si possono trasmettere ad altri individui (questo lo fanno anche gli altri animali, non solo l’uomo), ma in senso forte, e cioè come un codice «strutturato» in senso rigoroso nella nostra mente.
Il linguaggio umano non è una semplice funzione cognitiva o un mero strumento per la comunicazione, ma è un sistema formale ben strutturato, cioè una «sintassi»; e quest’ultima non è spiegabile come l’effetto di una data cultura o di una società particolare, ma come un corredo o se si vuole come un dispositivo che ogni uomo possiede a livello naturale e biologico.
L’idea forte è che – come ha scritto Chomsky, il fondatore della linguistica formale intesa come «grammatica generativa» – gli esseri umani siano «progettati in modo speciale», cioè si ritrovino addosso, per così dire, una ben precisa «capacità di trattare con i dati e di formulare ipotesi di una natura e di una complessità sconosciute» (p. 119), come attesterebbe l’impressionante rapidità con cui i bambini sono in grado di acquisire la grammatica spesso assai complessa di una lingua.
Studiando il linguaggio da questo punto di vista, dunque, ci troviamo di fronte a una struttura puramente naturale, ma senza cadere con ciò in un riduzionismo naturalistico, se è vero che già a questo livello l’essere-uomo è indice di una originalità irriducibile. In questo modo noi scopriamo un livello della soggettività che non è affatto “soggettivo”, bensì pienamente oggettivo, dal momento che l’«architettura» neurobiologica della nostra mente è tale da permettere capacità cognitive dotate di sensatezza e di ordine. E questo lo vediamo non solo quando ricerchiamo e affermiamo (o neghiamo) dei significati nel nostro stare al mondo (dimensione semantica del linguaggio), ma già da prima, nella nostra stessa capacità di comporre una frase, connettendo in un certo ordine, rigorosamente codificato nelle sue varianti, un soggetto, la copula e un predicato (dimensione sintattica del linguaggio). Di qui deriva quella competenza specifica della mente umana che è l’affermazione e la negazione, il giudizio e la ricerca della verità.
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Ed è proprio nell’analisi di un problema cruciale della linguistica generativa, vale a dire la natura e la funzione del verbo “essere”, che Moro dà prova di quanto stupefacente possa essere la scoperta di dati oggettivi, controllabili rigorosamente in senso formale, e pure ultimamente indeducibili da altre cause. In questo caso, per esempio, il fatto che il linguaggio sia strutturato e programmato nella nostra mente non vuol dire tanto che esso sia riducibile alle funzioni organiche del cervello, ma al contrario vuol dire che la mente, proprio in quanto strutturata linguisticamente, costituisce una differenza inesplicabile rispetto alle altre sue funzioni vitali.
Per dire in pochissimi accenni quello che Moro segue a partire dalla filosofia greca sino alle sofisticate ricerche della linguistica novecentesca e contemporanea, il verbo essere è a lungo sembrato un elemento della frase privo di proprietà strutturali precise, a motivo del fatto che esso a volte esprime un’identità (Socrate è un uomo: un nome seguito da un altro nome), a volte una predicazione (Socrate è umano: un nome seguito da un aggettivo), tanto che qualcuno, come ad esempio Bertrand Russell, ha ipotizzato l’esistenza di due differenti verbi “essere”. Se analizziamo poi la sintassi della frase, notiamo che la copula non si comporta come qualsiasi altro verbo transitivo (per il quale il soggetto resta sempre diverso dal predicato), ma implica anche il caso che il soggetto possa essere invertito con il predicato.
L’esempio riportato da Moro per una frase senza verbo essere è: «questa foto del muro ha causato la rivolta», che non sarà mai equivalente a «la rivolta ha causato questa foto del muro». Invece, usando la copula io posso dire: «questa foto del muro è stata la causa della rivolta», oppure, in maniera equivalente, «la causa della rivolta è stata questa foto del muro».
Qui sembra che la sequenza canonica delle frasi copulari (ossia soggetto-verbo-predicato) si spezzi, perché, ameno in una metà dei casi, abbiamo una sequenza inversa (ossia predicato-verbo-soggetto). Moro propone a questo riguardo una nuova ipotesi esplicativa, chiamata «teoria unificata delle frasi copulari», per risolvere l’ambiguità che accompagna sempre questo tipo di frasi, sia quelle «canoniche» in cui il soggetto precede il verbo e quest’ultimo viene seguito dal complemento oggetto, sia quelle «inverse», in cui prima è collocato il complemento oggetto e il soggetto viene invece dopo il verbo. In altri termini, a livello della sintassi, essere è sempre lo stesso verbo, la cui struttura si può trasformare a seconda che il nome che precede la copula abbia la funzione di soggetto o quella di predicato. L’acquisizione di questa teoria consiste innanzitutto nel riportare a «principi sintattici universali e indipendenti» (p. 242) tutte le applicazioni empiriche delle frasi copulari, e cioè rende conto in base a strutture determinate anche dei casi anomali della frase.
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Ma non sfugga il significato rilevante che tale acquisizione riveste anche al di fuori dei confini scientifici della linguistica generativa, contribuendo alla consapevolezza di come sia strutturata o «programmata» la nostra esperienza, di cui abbiamo coscienza sempre e necessariamente in forma linguistica (provate a vedere se si può avere coscienza di sé e del mondo senza affermarne il significato con una frase, e quindi secondo regole sintattiche!). La scoperta è che il verbo essere è una struttura non arbitraria della nostra mente (persino in quelle lingue in cui esso non venga espresso in forma esplicita, come l’ebraico), che permette di connettere gli elementi del mondo in forma sensata, giudicandone l’identità o la contraddizione, la verità o la falsità.
E se è lecita una conclusione filosofica (che forse non spiacerà del tutto al linguista), potremmo dire che la capacità che i soggetti umani hanno di rendersi conto di ciò che “è” è una disposizione formale, una sorta di matrice naturale (neurobiologica) che struttura ogni nostro discorso e ci permette di stare consapevolmente al mondo. Il nostro linguaggio non è una mera interpretazione soggettiva o una convenzione socio-culturale, ma costituisce un vero e proprio ordine dell’essere; e l’essere delle cose è ciò per cui e in vista di cui è strutturata la nostra mente. E qui davvero non solo lo stupore è causa della conoscenza, ma è la conoscenza la vera causa dello stupore.