Che libro è L’Arte della Menzogna Politica di Jonathan Swift (1667-1745)? Non è semplice rispondere a questo interrogativo, in apparenza innocente e sincero, per chi si addentri nell’intricato panorama libresco nostrano. Vi scoprirà ben quattro differenti “prodotti editoriali” con questo titolo proposti nell’ultimo ventennio (La Spiga, 1983; Ibis, 1995 e 2004; Aragno 2010; RCS, 2010) e, forse, ne riporterà una sensazione contraddittoria, constatandone la differente identità testuale (ogni editore offre una ricetta con ingredienti diversi), al di là dell’apparente somiglianza paratestuale (che riguarda solo il titolo, mentre la confezione varia costantemente). Da cui la domanda birichina: che si tratti di un libretto bugiardo? Di un libretto che si mostra, da un lato, cedevole nei confronti della schermaglia partitica dei nostri giorni e, dall’altro, dimentico dei suoi doveri nei confronti del suo “legittimo fattore”, il celebrato Decano di San Patrizio?

Tutto ciò – spiace dirlo – con la complicità di prefatori e recensori compiacenti ed interessati. Tra i primi, Giuliano Ferrara (prefatore dell’edizione RCS, 2010) – che inanella due definizioni improbabili dal punto di vista letterario e culturale per l’ideatore dei mitici Viaggi di Gulliver (“Decano figlio di Iago” e “Re delle Interpretazioni”) – ed Eraldo Violo (curatore dell’edizione Aragno, 2010), che pare troppo solerte nell’evidenziare che le parole di Swift “sembrano scritte oggi tanto riescono a descrivere perfettamente personaggi che operano sulla scena politica dei nostri giorni” e meno nel tratteggiare i rudimenti minimi dell’enciclopedia culturale swiftiana.

Tra i secondi, ancor più sbrigativi e approssimativi, l’anonimo “segnalatore” de Il Messaggero – che non riesce ad esimersi dall’immancabile riferimento al comico di turno (già evocato da Ferrara) – e, last but not least, Curzio Maltese, che, nello specchio delle sue – consuete e legittime, s’intende – “brame antigovernative”, travisa però lo scrittore de L’Arte della Menzogna Politica, attribuendogli una non meglio precisata intenzione di “trattarla come un’arte” nello script di una trasmissione di Rai Educational (1998: casualità?) sul “mondo nel linguaggio della politica”…

Nonostante le involontarie apparenze censorie, questa breve riflessione ha ovviamente l’unico obiettivo di caldeggiare la lettura de L’Arte della Menzogna Politica di Jonathan Swift, soprattutto nelle due più recenti edizioni nostrane sopra menzionate che, in certa misura, ne forniscono due rappresentazioni complementari: quella RCS più antologica, quella Aragno più ristretta ma corredata di un un’utile Appendice con il Testo dell’edizione inglese del 1712.

In che senso “antologica” o “ristretta”? Nel senso che, in realtà, entrambe costituiscono uno spaccato – appunto – “antologico” o “ristretto” di una fase assai rilevante del costante impegno politico-culturale del Decano e lo insediano tra i più fini protagonisti del dibattito politico del suo tempo, con il suo arcinoto e combattivo profilo: coraggiosamente schierato, scarsamente disponibile a trattare sui “principi non negoziabili” e decisamente incline a gettare nella mischia la sua “fantasia letteraria” -ovvero, in soldoni, “a mentire”, come egli fece ad esempio, secondo Sean J. Connolly, nelle pagine di un’autobiografia incompiuta, scritta probabilmente negli anni venti del diciottesimo secolo, che dedicò alla presunta consulenza di natura costituzionale che egli, giovanissimo protetto di Sir William Temple (1628-1699), raccontò di aver fornito alla corte inglese nel 1693…

La fase a cui risale L’Arte della Menzogna Politica, è, invece, il semestre o poco più che va dal novembre 1710 al giugno 1711, in cui Swift si impegnò a produrre trentatré saggi di natura cultural-politica per The Examiner, periodico che ospitò settimanalmente tra il 1710 ed il 1714 un unico contributo a sostegno delle scelte politiche moderate del primo ministro conservatore Robert Harley (1661-1724). Il nome emblematico del periodico ne dichiara cultura e finalità che Swift declinò con piena coerenza politica: quando indossò i panni de (letteralmente) “L’Esaminatore” (che è figura diversa da quella che oggi forse diremmo “L’Analista” o “L’Osservatore”), egli impersonò – con buona pace dei prefatori e recensori di cui sopra – una “impartial Hand” tanto disponibile a “conversare con pari libertà con gli uomini meritevoli di entrambi i partiti”, quanto contraria agli “estremismi matti e ridicoli” delle fazioni in campo (Whigs e Tories, anche se i primi gli risultarono sempre indubbiamente più indigesti dei secondi): atteggiamento, questo, che potrebbe rievocare quello del trimmer (“chi mantiene stabile la nave dello stato”) del Marchese di Halifax (1633-1695), il cui Character of a Trimmer (1682) Swift potrebbe aver letto nella biblioteca di Sir William Temple, richiamandone poi il protagonista nel suo Argument against Abolishing Christianity del 1708 insieme agli antagonisti Whig e Tory.

 

A differenza del cattolico Alexander Pope (1688-1744), il quale dedicherà un suo celebrato Essay on Man (1732-1734) proprio a un Essere Umano “oscuramente saggio e rozzamente grande” in quanto “collocato sull’istmo di uno stato intermedio”, l’idiosincratica antropologia anglicana di Swift lo portava a “odiare e detestare l’animale chiamato uomo, pur amando con tutto il cuore John, Peter, Thomas, ecc.”, come scrisse in una lettera destinata proprio all’amico Pope.

In tale cornice, che proietta i due volumetti swiftiani di cui si dice in queste brevi note critiche ben al di là della caduca attualità dell’odierno dibattito partitico nostrano, non sorprendono due brevi, ma strategiche annotazioni sulla “nobile e utile arte della menzogna politica” un tempo attribuite al Decano e oggi considerate frutto della mente altrettanto sottile di un suo devoto sodale, John Arbuthnot, che del Decano condivise linguaggio, cultura, finalità e strumenti.

Le cito dalla maneggevole edizione RCS de L’Arte della Menzogna Politica: da un lato, il fatto che, “per le molte nuove scoperte, essa […] rivendica giustamente una voce nell’Encyclopædia, soprattutto come modello educativo per un abile politico” – osservazione (iper)razionalistico-pedagogica di amplissimo respiro, la cui tagliente ironia finisce per intaccare le radici e le pretese del modello enciclopedico nella sua versione proto-illuministica e le sue applicazioni alla formazione della persona in vista della convivenza civile; dall’altro, la constatazione che l’“abbondanza di menzogne politiche è una prova evidente della libertà inglese: al pari dei ministri che utilizzano queste armi per sostenere il proprio potere, il popolo si serve delle stesse per difendersi e per far cadere il governo” – riflessione di impronta cerchiobottistica, dirà sicuramente qualcuno dei pazienti lettori: in realtà, suggerirei di considerarla una posizione “da trimmer”, con maggior accuratezza storico-culturale e con più adeguata sagacia ermeneutica…

Fedele al principio che “nella scrittura si procede come nell’edilizia”, Swift intese ne L’Arte della Menzogna Politica riportare unità architettonica al “corpo politico”, che riteneva paragonabile al “corpo naturale”, ed impedirne l’atomizzazione. E, soprattutto, contrastare il “nuovo” (in realtà, rinnovato) attore sociale ed istituzionale che, proprio in quegli anni, operava da agente atomizzatore e frantumatore del “corpo politico”: l’accezione finanziaria della menzogna politica (vera e propria “menzogna politica di natura mista”), il cui epicentro disgregatore si era insediato nella Borsa inglese – quest’ultima, governata dalla manipolazione del principio del bonum utile; irrefrenabile produttrice di “menzogne di Borsa” mai messe in dubbio da “gente di libero mercato, come siamo soliti definirci”; principale responsabile della rivoluzione finanziaria della quale il Decano era testimone sprezzante e per la quale “il potere, che secondo la vecchia massima era costituito dalla terra, oggi risiede nel denaro”.

 

Buona lettura de L’Arte della Menzogna Politica di Jonathan Swift, dunque! Tuttavia, per gustarne fino in fondo il sapore agrodolce, meglio astenersi da irrispettose banalizzazioni, eccessivamente sbilanciate sulla nostra contemporaneità (salvo, in seguito, attualizzarne taluni disincantati insegnamenti), e adoperarsi per percepirvi quella “savage indignation” con cui egli “served human liberty”, come scrisse, con orgoglio nazionale, nel fulminante ed icastico Swift’s Epitaph il fiero epigono William Butler Yeats, Premio Nobel per la Letteratura 1923.

 

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