E’ garbato e rigoroso, coinvolgente e nello stesso tempo meticoloso. Non sono aggettivi di circostanza, ma quello che ti viene in mente subito, nel momento in cui hai finito di leggere Se la vita si rianima, libretto di Giuseppe Baiocchi e Patrizia Fumagalli, con una prefazione di Giancarlo Cesana, edito da Ares alla fine di febbraio di quest’anno. Baiocchi è un grande professionista, giornalista di Avvenire, per 23 anni del Corriere della Sera e poi direttore a La Padania, ma anche uno storico della scuola di Giorgio Rumi, insieme all’amico Walter Tobagi. La più giovane Patrizia Fumagalli è un medico, con la specialità di anestesista rianimatore, persona che sta a contatto quindi con la sofferenza e con la speranze di vedere un suo paziente riprendersi, per ottenere lo scopo per cui ha fatto il giuramento di Ippocrate.

Il libro entra con rigore quasi scientifico nel dibattito sulla vita e sulla “morte pilotata” e, a volte, dichiaratamente richiesta, sul significato della vita anche in caso di coma profondo o di ritorno da quello stato che pare un altro mistero impenetrabile. Si inserisce quindi in un dibattito attualissimo, che ormai scuote i palazzi della politica e si sofferma anche sul caso di Eluana Englaro, una delle vicende che più ha diviso l’Italia in questi ultimi anni.

Fin dalla prefazione di Giancarlo Cesana ci sono passaggi logici precisi che non si sposano con quella che eufemisticamente si chiama “eutanasia”. Ricorda Cesana: «Gli ospedali sono nati all’inizio di quello che noi chiamiamo Medio Evo (…). Non sono nati perché si sapessero curare le malattie (…). Gli ospedali sono nati per ospitare, per accogliere e assistere gli uomini e le donne in difficoltà, colpiti dalla sventura, in cui spesso malattia e miseria facevano tutt’uno».

Se in questa frase c’è la grande tradizione cristiana dell’aiuto, nella premessa degli autori ci si sofferma su una parola che da un punto di vista ospedaliero sembra ormai un semantema di cattivo presagio, “Rianimazione”: «Per la lingua italiana, e lo si ritrova in ogni dizionario, è uno splendido termine – scrivono Baiocchi e Fumagalli – che significa restituzione e ripresa di vitalità, di animazione, di fiducia, di coraggio (…). Eppure, nel logorio del linguaggio e nella pigra routine giornalistica o burocratica-sanitaria, ha finito per associarsi quasi esclusivamente a un senso prevalente di sconfitta, di anticamera della fine, di un tempio appartato dove si compiono i riti misterici di una scienza sempre meno traducibile al comune sentire».

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Tra queste due considerazioni di partenza, che ricordano la speranza della vita, la lotta per la vita, la necessità di onorare la vita in tutti i modi passando anche attraverso le sofferenze e i misteri non solo della medicina moderna ma della stessa natura umana, della mente e del cuore di una persona, il racconto dei due autori di Se la vita si rianima si basa \sempre su scrupolose definizione scientifiche, ricostruzioni di casi da un punto di vista medico e nello stesso tempo episodi reali di chi è ritornato dall’incredibile stato neurovegetativo, di chi aveva programmato la "sua morte" in caso di gravi menomazioni di carattere fisico e poi ha accettato di vivere ugualmente.

E si tiene conto anche dell’impatto emotivo, psicologico, che travolge non solo il soggetto malato, ma un’intera famiglia, allargata agli amici che ti sono vicini. Nonostante tutto questo complesso di fattori, si coglie un nocciolo profondo: la vita è un’avventura irripetibile che ti è donata, probabilmente in qualsiasi condizione fisica. Perché barattare un simile dono e una tale avventura in nome dell’efficienza fisica?

Così, in questo modo molto motivato si arriva all’ultimo capitolo, intitolato Eluana, l’eccezione. Qui il racconto mette in luce un rovesciamento della logica: «(…) nella memoria collettiva di tanti anni e di tanti casi vissuti e sperimentati emerge un’unica vicenda nella quale, praticamente fin dall’inizio, si manifesta il rigetto della persona curata nella rianimazione e con disabilità di natura cerebrale: il caso Englaro. L’eccezione, l’unica eccezione è qui, nell’atteggiamento della famiglia che si rifiuta di accettare la realtà».

Potrà sembrare paradossale, ma a chi scrive e ha letto con passione questo libro, pare che il "caso Englaro" sia un «emblematico esempio dei tempi», una «mentalità che si afferma», una «tragedia causata da un dolore terrificante» che però offusca la realtà. Il male moderno più insidioso. Nessuno giudica. Si vuole solo ragionare secondo logica.