“Nell’insieme dei programmi che presento c’è anche e soprattutto il destino del Paese” ha detto ieri Draghi alla Camera, presentando il Piano nazionale di ripresa e resilienza che il governo manderà il 30 aprile alla Commissione europea. Per farlo però serve il sì del parlamento, un voto in tempi rapidissimi che coincide politicamente con il sostegno allo stesso governo Draghi. Oggi, dopo il voto delle risoluzioni di maggioranza e opposizione, analogo passaggio toccherà al Senato (comunicazione del premier e voto delle risoluzioni); infine giovedì il Consiglio dei ministri trasmetterà alla Commissione il Piano per sottoporlo al vaglio della burocrazia europea, che si pronuncerà entro 60 giorni.



Il passaggio parlamentare è troppo rapido, dice Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo. In Germania, spiega il professore, sarebbe stato il parlamento a scrivere il Piano, in Italia questo non è stato possibile e occorre chiedersi perché. Adesso i partiti devono impegnarsi nell’attuazione del Recovery in uno spirito di unità nazionale, permettendo a Draghi di portare a termine la legislatura.



Professore, il ruolo del Parlamento è rispettato?

Formalmente il passaggio parlamentare si sta compiendo, ma risulta essere troppo rapido e poco proficuo, rispetto all’impegno che il Pnrr comporterà per tutte le istituzioni della Repubblica.

Possiamo riepilogarlo in breve?

Avremo due date di attuazione, la prima è entro il 2023 e la seconda entro il 2026; dopodiché bisognerà ripagare quanto speso a titolo di prestito entro il 2058. Si tenga conto che gli effetti che l’Ue si aspetta sono pressoché immediati. O arriva una ripresa seria, oppure per l’Italia si corre il rischio di un declino irreversibile.



Per tornare al Parlamento?

Tutto questo forse avrebbe richiesto una maggiore divulgazione del Piano e una discussione pubblica più ampia. Il Parlamento è il luogo dove le forze politiche devono prendere gli impegni politici; avrebbe dovuto essere coinvolto persino nella scrittura del Piano, peraltro ubbidendo a vincoli già predeterminati a livello europeo.

Dunque il Recovery avrebbe dovuto farlo il Parlamento? Non è un’utopia?

Il regolamento europeo (241/2021, ndr) non dice nulla in proposito, né potrebbe, atteso il principio dell’art. 4, par. 2, del Tue, per il quale “l’Unione rispetta l’identità nazionale degli Stati membri insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali”.

È un punto rilevante: “nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale”.

Vuol dire che il problema riguarda la nostra forma di governo e il ruolo del Parlamento, che non può essere ridotto a una presa d’atto.

Bene. E poi?

Quanto alla scrittura in Parlamento del Piano, certo che è un’utopia, soprattutto per la condizione in cui versa il nostro Parlamento, non solo per il personale politico che è stato selezionato, ma anche per le incertezze che avvolgono il sistema politico. Ciò non toglie che una discussione parlamentare, su un tema di questa portata storica, non si possa ridurre a due giorni tra Camera e Senato.

Sul Recovery è caduto il governo Conte 2 e si è formato il governo Draghi. Quanto ha inciso questo fatto sul risultato finale?

Il cambiamento del governo ha inciso tanto sul contenuto del Piano quanto sulle condizioni politiche della sua elaborazione. Sicuramente, poi, il tempo utilizzato nella formazione del governo Draghi ha comportato inevitabilmente il venir meno dello spazio del dibattito parlamentare.

E quanto alle differenze tra i due documenti?

Sarebbe un errore considerare il Piano presentato adesso come un semplice approfondimento del Piano elaborato dal governo Conte 2. La differenza tra i due documenti è enorme e non dipende solo dal numero delle pagine, quanto soprattutto dai contenuti che sono stati studiati in relazione a prospettive di medio-lungo periodo, con quantificazioni più adeguate, con un’articolazione più lungimirante e con un cronoprogramma di attuazione.

E sulla cosiddetta governance?

Anche il “governo del Piano”, come lo ha definito correttamente il presidente del Consiglio, è stato tracciato in modo adeguato, sebbene su questo punto si comprenderà molto di più dopo che sarà reso noto il relativo decreto.

Nelle ore precedenti il Cdm di sabato c’e stata una trattativa informale e riservata tra Draghi e von der Leyen. Come sono andate le cose secondo lei?

La Commissione aveva lasciato trasparire alcune incertezze sul progetto italiano, soprattutto dal punto di vista del rispetto dei contenuti e dei tempi di attuazione. Questo avrebbe aperto come in altre occasioni un continuo rimando delle “carte” da Roma a Bruxelles e da Bruxelles a Roma. Draghi ha impedito che il Paese venisse screditato prima ancora di avere iniziato a dare attuazione al Piano e ha fatto valere il proprio prestigio. Questo di per sé è un fatto positivo, ma dovrebbe avere anche delle conseguenze.

A cosa pensa?

Ad esempio, le forze politiche che hanno cooperato congiuntamente alla redazione del Piano dovrebbero avere anche la sensibilità di attendere insieme e lealmente alla sua attuazione, rinviando la lotta politica a quando il Paese si sarà effettivamente ripreso e sarà nuovamente competitivo.

Vuol dire prolungare il governo di unità nazionale?

Solo lo sforzo congiunto dei partiti, in questa fase particolare, può impedire che per il bene di una parte si faccia il male del Paese. Insomma, le forze politiche dovrebbero evitare di avere fretta a sbarazzarsi di Draghi. Anzi, da questo punto di vista, l’ideale potrebbe essere di lasciare al suo posto l’attuale inquilino del Quirinale e mantenere il governo Draghi sino alla fine della legislatura nel 2023.

Per quale motivo?

Non sarebbe un male fare precedere l’elezione del nuovo Parlamento, che avrà numeri ridotti rispetto a quello attuale, a quella del nuovo Presidente della Repubblica.

(Federico Ferraù) 

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