Eppur si muove. Mentre finalmente prende velocità la campagna vaccinale, che rappresenta il primo obiettivo del governo Draghi, inizia a muoversi qualcosa anche sul fronte giustizia. Lentamente, con qualche vaghezza, eppur si muove. Ma in quale direzione? L’approvazione del Recovery Plan svela i piani di riforma del governo. Da qui partiamo per provare a ragionare senza preconcetti.



“Abbiamo un compito storico, un’occasione irripetibile per l’Italia. È il Recovery Plan – ha dichiarato alla Stampa la ministra Cartabia – e vorrei che una cosa fosse ben chiara, ai partiti e ai cittadini: insieme a quella della Pubblica amministrazione, la riforma della giustizia è il pilastro su cui poggia l’intero Piano nazionale di ripresa e resilienza. Se fallisce questa riforma, noi non avremo i fondi europei”. Con un accorato appello alla “responsabilità” e un’esortazione al “realismo”, la Cartabia ha poi auspicato che i partiti della maggioranza rinuncino al conflitto permanente e ammainino le “bandierine identitarie”, sottolineando come la giustizia che fino ad oggi “è stata una trincea”, deve ora diventare “il terreno dove cercare una convergenza”.



Difficile non essere d’accordo con queste parole, difficile non condividerne lo spirito. Opportunamente la ministra invoca “un grande patto”, sulla falsariga del “patto fondativo che fece nascere la nostra Repubblica”: “anche allora c’erano tre forze politiche dominanti che andavano in direzioni diverse, eppure la Costituzione si fece”. L’obiettivo ovviamente è “una giustizia rapida e di qualità”, con “riforme dei processi, digitalizzazione, assunzione di personale, ristrutturazioni edilizie”. La ministra ricorda che “una riduzione della durata dei processi civili del 50% può accrescere la dimensione media delle imprese italiane di circa il 10%. Una riduzione da 9 a 5 anni dei tempi di definizione delle procedure fallimentari può generare un incremento di produttività dell’economia dell’1,6%”. Il suo prestigio personale rafforza il suo programma e l’auspicio non può che essere che ella riesca nei suoi, o meglio, nei nostri propositi.



Su queste basi apprezzabili occorre tuttavia andare a vedere il merito delle proposte formulate nel piano, e qui qualche nota dolente viene fuori. Approfondito quanto basta per ottemperare alle richieste dell’Unione Europea ma sufficientemente generico per non irritare evidentemente le diverse sensibilità della maggioranza di governo, sulla giustizia il Recovery plan sceglie di non schierarsi, ancora. La versione finale del testo fa proprie gran parte delle misure elaborate dall’ex ministro Alfonso Bonafede e inserite nel Piano precedente e prende molto alla larga i problemi principali: i concreti provvedimenti per la riduzione dei tempi dei processi, la riforma del Csm, il tema della prescrizione. Insomma, il governo gioca all’italiana, si chiude in difesa e butta la palla in avanti, spostando più in là la discussione politica.

Il primo scoglio che la ministra della Giustizia dovrà superare è la revisione dell’ordinamento giudiziario, di cui una parte decisiva è la riorganizzazione del Csm, avendo il governo espressamente scritto di aver “richiesto la trattazione prioritaria che ne comporterà la calendarizzazione per l’esame dell’Aula entro giugno 2021”. Al di là della scelta che verrà fatta per il metodo di elezione della componente togata, ciò di cui non si parla è il tema della responsabilità delle toghe, il vero punto cruciale, la cui delicatezza non sfugge neanche al lettore più ingenuo. Le proposte di istituzione di una commissione d’inchiesta dovrebbero lasciare spazio ad una più seria discussione di come si deve rafforzare l’aspetto cruciale per garantire in concreto il miglior funzionamento della macchina giudiziaria. Come accade in tutte le professioni, chi sbaglia deve essere chiamato a rispondere dei suoi errori.

Ma il vero banco di prova sarà a settembre, quando è prevista l’approvazione delle leggi delega sulla riforma del processo penale, del processo civile e dei procedimenti speciali. Non sarà facile mediare per trovare un accordo sulla revisione dell’intero sistema giudiziario italiano. L’obiettivo principale delle riforme sulla giustizia tratteggiate nel Recovery plan è quello di accelerare i processi, favorire la “repressione della corruzione” e aumentare “l’efficienza” del sistema, come indicato nelle Country Specific Recommendations indirizzate dall’Europa all’Italia negli anni 2019 e 2020.

Tracciati gli obiettivi, il percorso appare francamente tutto ancora da trovare. Come da queste pagine abbiamo già avuto modo di esprimere, sono molte le speranze che vengono riposte nei lavori delle diverse commissioni di esperti insediate presso il ministero e solo all’esito delle loro conclusioni avremo qualcosa di concreto su cui ragionare. Dobbiamo quindi attendere e confidare in ciò che un tempo si chiamava cura da cavallo. Il sistema è francamente allo stremo. Dell’invettiva di Grillo un unico vero aspetto andrebbe discusso: il perché sono passati quasi due anni senza che le indagini siano state chiuse.

Suggestiva la leva delle assunzioni promesse, che dovrebbe permettere di abbattere l’enorme mole di arretrato che pesa sugli uffici giudiziari; l’assunzione a tempo determinato entro fine 2021 di 16.500 laureati in legge, economia e scienze politiche, a cui andranno aggiunti oltre 5mila laureati e diplomati in qualità di staff tecnico e amministrativo è un argomento che scalda i cuori di tanti padri che possono sperare in uno sbocco occupazionale per i loro figli, ma l’esperienza dell’utilizzo dei giudici di pace e dei viceprocuratori onorari è lì a testimoniare quanto questi meccanismi siano scivolosi nel lungo periodo.

Una sezione a parte è dedicata alla corruzione, da combattere anche attraverso una serie di semplificazioni normative che non impongano “oneri e adempimenti troppo pesanti” alla Pa. Anche qui va capito il come si vuole perseguire questo obiettivo e con grande piacere aspettiamo di leggere le proposte concrete, fra l’altro in un ambito intorno al quale gira anche l’aspetto dei controlli sulla spesa dei soldi del Recovery.

Insomma, sulle dichiarazioni di principio siamo in piena sintonia, ma la sensazione è che i nodi siano tutti lì che aspettano una mano sapiente che sappia e che soprattutto voglia scioglierli sul serio.

Scenario non molto dissimile sul fronte del processo civile. La prima riforma indicata nel Piano riguarda il rafforzamento degli strumenti alternativi al processo per la risoluzione delle controversie. Il punto di partenza è il disegno di legge delega presentato in Senato dall’ex ministro Bonafede nel gennaio 2020, che prevede, tra le altre cose, un ampliamento delle “garanzie di imparzialità” degli arbitrati, l’estensione dell’applicazione dell’istituto della mediazione e della negoziazione assistita. La tabella di marcia prevede il via libera alle leggi delega entro settembre 2021 e ai decreti attuativi entro settembre 2022.

Stesse tempistiche per la riforma del processo civile, su cui l’esecutivo ha intenzione di intervenire in modo “selettivo”: va migliorata la gestione della fase istruttoria con un “calendario del processo” più rigido, saranno istituzionalizzate le udienze da remoto introdotte per il Covid, sarà potenziato il filtro di ammissibilità per le impugnazioni. L’impatto reale di tutte le norme messe in campo sulla giustizia civile si vedrà “alla fine del 2024”, recita il piano. Qualche maggior spiraglio di ottimismo si intravede all’orizzonte per la maggiore fluidità di dialogo fra le varie componenti del governo su questi temi.

Nel complesso, quindi, ogni valutazione seria va rinviata alle successive proposte che in concreto verranno messe in campo. La direzione appare tracciata, ma il percorso appare ancora assai irto di difficoltà.

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