Risorse per 20,2 miliardi, di cui quasi la metà destinate a più cure e servizi di prossimità, in un’ottica di maggiore integrazione con i servizi sociali, senza trascurare la spinta alla digitalizzazione del sistema sanitario, compresa la telemedicina. Sono gli architravi su cui poggia il capitolo del Recovery plan dedicato al rafforzamento e all’innovazione della sanità. L’obiettivo è anche quello di cercare di uscire dalla logica ospedalocentrica, che in questo anno di emergenza Covid ha mostrato la corda.



Bastano le risorse messe in campo? E il dimezzamento, rispetto al piano Conte, di case di comunità e ospedali di comunità, potrebbe rendere più arduo il raggiungimento di questo obiettivo? Ci sono altri punti deboli che andrebbero affrontati per migliorare la sanità italiana? Lo abbiamo chiesto ad Augusto Panà, esperto di igiene, sanità pubblica e medicina preventiva.



Il piano Speranza chiedeva 68 miliardi per la sanità. Il Recovery plan ne prevede poco più di 20 miliardi per la sanità. Dopo anni di tagli, è una cifra congrua?

Per ammodernare la sanità non è una cifra congrua: può aiutare molto, ma non è sufficiente, soprattutto a livello di personale e organizzazione efficienti, servirebbe di più. Comunque 20 miliardi sono sempre meglio rispetto ai 9 miliardi di cui si parlava. Immagino, comunque, che siano state valutate e calcolate tutte le esigenze.

Nove miliardi saranno destinati al potenziamento dell’assistenza domiciliare, scommettendo su due modelli: case della comunità, molto simili alle case della salute, e ospedali di comunità. L’obiettivo è ridurre il modello ospedalocentrico, che con la pandemia Covid ha mostrato un po’ la corda. Una scelta condivisibile?



Certamente. Tant’è vero che l’ospedale di comunità e le case di comunità sono inseriti nell’ambito dell’assistenza primaria, non nell’assistenza ospedaliera. L’assistenza primaria non è solo il medico di famiglia che da solo cura il paziente, è qualcosa di molto più complesso e può essere ben espletata proprio se vengono organizzate le case della comunità vere e proprie, che fanno da filtro importante per l’assistenza ospedaliera.

In che modo?

Negli ospedali non solo finiscono spesso malati che non dovrebbero mai esserci andati, ma ci sono anche malati curati e guariti da una patologia grave che poi hanno bisogno di assistenza. Gli ospedali di comunità potrebbero assolvere a questo compito, valorizzando soprattutto il ruolo e le funzioni degli infermieri. La presenza del medico può anche essere più saltuaria. Negli ospedali di comunità, oltre a ricoverare pazienti dimessi che devono completare la convalescenza, si potrebbero ospitare anche pazienti lungodegenti, che è inutile e molto costoso tenere per mesi in un letto d’ospedale.

Per le case di comunità e per gli ospedali di comunità meglio realizzare strutture nuove o riammodernare i piccoli ospedali in gran parte chiusi negli ultimi anni?

Ci sono ospedali di comunità, che sono strutture intermedie tra l’assistenza a domicilio e quella in ospedale, che già sono presenti all’interno dei nosocomi. Ma sarebbe opportuno anche riutilizzare in tal senso i piccoli ospedali chiusi o i molti ospedali che sono stati costruiti ma mai aperti e utilizzati.

Rispetto al piano del governo Conte, il Recovery plan del governo Draghi ha dimezzato il numero delle case di comunità (da 2.564 a 1.288) e degli ospedali di comunità (da 753 a 381) previsti sul territorio. Questo taglio potrebbe rendere più difficile la deospedalizzazione della sanità italiana?

Non è un problema di numeri, ma organizzativo. Si può benissimo raggiungere l’obiettivo anche con meno strutture, ma certamente con più personale dedicato. Sarà fondamentale indicare con precisione requisiti e organizzazione di queste strutture.

Si punta molto anche sulla digitalizzazione, potenziando il Fascicolo sanitario elettronico e ammodernando le apparecchiature negli ospedali. Bastano questi interventi o serve altro?

La digitalizzazione della sanità, che è un processo ormai incontrovertibile e irrinunciabile, si affianca benissimo, come sottolinea tra l’altro lo stesso Recovery plan, allo sviluppo della telemedicina, nella quale io credo moltissimo, perché serve ad alleggerire le strutture.

Si vorrebbe andare verso una maggiore e più efficiente integrazione tra sanità e servizi sociali. Che ne pensa?

E’ un’ottica giustissima, se ne parla da decenni. Il problema è: ci riusciranno? In tal caso, sarebbe tanto di guadagnato.

Perché è così difficile integrare questi due sistemi?

E’ soprattutto una questione di risorse, che per i servizi sociali sono molto più scarse. L’integrazione invece è fondamentale, perché non si fa salute solo curando il paziente. Il 20% dei risultati derivano dall’assistenza ospedaliera, il resto dipende dalla cultura, dall’educazione sanitaria della popolazione. E noi in Italia parliamo più di promozione della salute che di educazione sanitaria.

Ci sono già esempi in atto di questa integrazione?

In diverse Asl della Toscana è prevista una collaborazione stretta tra il medico e gli altri attori collegati con la promozione della salute.

Nel Recovery si dice poco o nulla rispetto alla richiesta di ripensare il ruolo di medici di famiglia e pediatri. Un’occasione sprecata, visto che la medicina territoriale è stata il tallone d’Achille nel contrasto all’epidemia?

Quella che è completamente mancata in questa pandemia è l’organizzazione sanitaria territoriale, soprattutto in certe regioni, che hanno ospedalizzato troppo. Ma non è solo il medico o il pediatra di famiglia a dover garantire questo filtro: ci sono anche i distretti socio-sanitari, i Dipartimenti di prevenzione delle Asl…  E’ necessario integrare queste funzioni per avere una buona assistenza sanitaria territoriale e tutte queste figure avrebbero fatto da filtro anche per il Covid.

Ci sono ambiti e interventi che meritano maggiore attenzione per migliorare il servizio sanitario?

Sarebbe importante raddoppiare i medici ospedalieri e gli infermieri. L’Italia soffre di una pesante carenza di personale, a confronto con altri paesi, Germania in testa. E c’è carenza di competenze: per fare assistenza e igiene pubblica bisogna conoscere le tecnologie, la prevenzione, l’organizzazione sanitaria. Tutto ciò faciliterebbe anche l’attività clinica

(Marco Biscella)

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