Solo due giorni fa l’Europa, dopo tanto tempo, ha battuto un colpo proponendo un piano da circa 750 miliardi euro per affrontare la crisi a seguito dell’emergenza Coronavirus, di cui 173 che toccherebbero all’Italia. Ma in attesa che questo piano che forse non si chiamerà nemmeno più “Recovery Fund” diventi davvero operativo e ottengo l’ok di tutti gli Stati Membri, anche quelli più “rigoristi” e attenti ai conti non tutto torna nelle misure annunciate dalla Commissione UE presieduta da Ursula von der Leyen: secondo alcuni osservatori, infatti, pur avendo una forte valenza politica e come “segnale” di un cambio di passo a Bruxelles e dintorni, andrebbe invece analizzata bene la reale portata economica. Infatti se da una parte la novità è la solidarietà mostrata dalla Germania di Angela Merkel nell’aiutare il Bel paese (compartecipando al rischio di un “default tricolore”), va ricordato che non dovrebbe essere emesso alcun Eurobond.



LE VERE STIME DEGLI AIUTI UE ALL’ITALIA

Secondo Roberto Perotti, economista milanese e professore ordinario di Economia Politica presso l’Università Bocconi, c’è un errore di fondo nell’interpretazione del piano presentato dalla Von der Leyen e accolto con moderato entusiasmo alle nostre latitudini. A suo giudizio di quei 750 miliardi di cui si è parlato l’altro giorno, che verranno presi a prestito dalla UE, ben 500, ovvero i due terzi, andranno a finire ai vari Stati Membri come sussidi che non sono da restituire, mentre i restanti 250 saranno elargiti come prestito ai diversi Paesi. Da una prima analisi del piano pare che all’Italia toccherebbero quei quasi 173 miliardi, di cui 82 sarebbero appunto somme a fondo perduto e 91 invece sotto forma di prestito: tuttavia secondo l’economista milanese però l’opinione diffusa (ed errata) è che quegli 82 miliardi non sono un regalo che gli altri Stati ci fanno, e che la somma reale si aggirerà attorno ai 20 miliardi. Questo perché innanzitutto va ricordato che quel numero 91 si riferisce a un prestito, mentre i 500 miliardi di cui sopra verranno raccolti a Bruxelles emettendo debito che dunque sarà ripagato con delle nuove tasse da introdurre e che dovrebbero essere calcolate in maniera proporzionale al PIL di ciascun Paese.



IL PIANO HA PIU’ UNA VALENZA POLITICA CHE…

Ciò detto, dato che l’Italia contribuisce attorno al 13% del bilancio dell’Unione Europea, in conclusione la somma ammonterebbe a 65 miliardi su quei 500 totali, per un netto che è di 17 rispetto al dato iniziale di 82 di sussidi. Insomma, non è tutto oro quel che luccica anche se quantomeno il segnale che arriva dalla Commissione UE è incoraggiante: il punto a favore dell’Italia e del Governo Conte che si è speso molto nelle ultime settimane per arrivare a un risultato del genere è secondo Perotti il fatto che “l’Europa paga sul debito che emette un tasso di interesse inferiore a quello che paga l’Italia” a cui passerebbe questo risparmio. L’economista calcola questa differenza nell’ordine dell’1% su 91 miliardi di totale, per un risparmio che sarebbe di poco meno di un miliardo per ogni anno. Infine l’altro aspetto poco compreso dagli osservatori e sui cui Perotti accende i riflettori è che sui fondi europei in Italia se ne sono viste di cotte e di crude, con denaro che sovente è stato speso male o addirittura in alcuni casi non utilizzato.



L’ANNOSO PROBLEMA DI COME VENGONO USATI I FONDI UE

Insomma, se nel nostro Paese nei prossimi quattro anni (ovvero fino al 2024) arriveranno oltre 170 miliardi il problema sarà come spenderli. “Neanche il Governo più competente e ben intenzionato può riuscire in breve tempo a trovare idee intelligenti e fruttuose” avverte Perotti a proposito di quello che rappresenterebbe il 10% del PIL di un anno. A cosa saranno destinati? Certamente parte a mobilità e infrastrutture sul territorio, sicuramente al mondo della scuola e alla messa in sicurezza delle strutture, ovviamente alla Sanità (martoriata dai tagli degli ultimi anni) e magari anche alle “infrastrutture tecnologiche” come la prossima frontiera del 5G. Ma per Perotti avanzeranno ancora oltre 100 miliardi e il rischio che le spese non siano virtuose c’è, con tanti soggetti intenzionati a volerci ‘mangiare’. Proprio uno dei mali atavici del sistema italiano che potrebbe far venire a galla vecchie pratiche in un Paese dove sarebbe ancora necessario riformare pubblica amministrazione e burocrazia