Mentre è quasi scontato che la Legge di bilancio verrà definitivamente approvata, con il voto di fiducia al Senato, entro fine anno, lo stesso non si può dire per il Recovery plan che il Premier Conte avrebbe voluto portare in Consiglio dei ministri prima del 31 dicembre. Le continue richieste e minacce, sempre meno velate, di Matteo Renzi, infatti, stanno facendo slittare la decisione finale all’inizio del 2021. Il commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni, in un’intervista a Repubblica, ha ricordato che “i 209 miliardi destinati all’Italia vengono assegnati solo se si raggiungono gli obiettivi stabiliti nei tempi previsti” e che “se non vengono raggiunti nei tempi stretti previsti gli obiettivi scritti nel piano, le erogazioni semestrali successive all’approvazione del piano saranno a rischio”. Dunque, il nostro Paese ha di fronte a sé una sfida importante, che, come ricorda Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, è impossibile vincere senza stabilità politica. Merce che sembra essere rara visto che da un mese circa si parla di crisi di governo dietro l’angolo.



Professore, siamo alle soglie di un nuovo anno in cui ci si augura di poter avere una ripartenza dell’economia. Cosa occorrerà per raggiungere questo obiettivo?

Sono convinto che la ripresa economica sarà tanto più rapida e soprattutto auspicabilmente consistente, quanto più sarà rapido il piano di vaccinazione che ancora deve veramente cominciare. A mio avviso sarebbe un segnale concreto dell’inizio dell’uscita dal tunnel, specialmente per riattivare quel motore fondamentale che sono i consumi delle famiglie. Allo stesso tempo nel 2021 bisognerà che ci sia una forte efficienza nel cominciare a concretizzare i contenuti del Recovery plan. Non bisogna infatti dimenticare che se non sfrutteremo le risorse che arriveranno nei prossimi cinque anni le perderemo.



Servirà quindi un’organizzazione efficiente e impeccabile. Si può essere ottimisti al riguardo?

Sicuramente le risorse non bastano e occorre un intervento che del resto è parte integrante del Recovery fund. L’Europa, infatti, chiede a ogni Paese membro di realizzare investimenti e riforme strutturali. Per l’Italia, le riforme strutturali a mio avviso fondamentali sono due: quella della Pubblica amministrazione, in particolare per la sua digitalizzazione, e quella della giustizia. Per realizzare riforme di questo spessore è chiaro che occorre una stabilità di governo.

Che in questo momento non si percepisce…



Per questo ci vorrebbero nuove elezioni in modo che possa nascere un Parlamento in grado di produrre un esecutivo stabile. Oppure bisognerebbe dar vita a un Governo di unità nazionale, nel quale certamente ogni partito porterebbe interessi diversi, ma dove si cercherebbe un compromesso, in particolare per realizzare le riforme fondamentali. Tuttavia, oggi come oggi il panorama politico non lascia ben sperare, è un volare di insulti.

Quali sarebbero le conseguenze del non riuscire a sfruttare l’occasione del Recovery fund?

Certamente ne risentirebbe la nostra credibilità e capacità di essere parte di un’Europa che, come spiegavo in una precedente intervista, sarà costretta a cambiare. Stiamo diventando un Paese piccolo, come dimensione, come economia, come tessuto sociale che stabilisce i rapporti tra cittadini e Stato. In questi giorni in tanti sono rimasti colpiti dalle lunghe code a Milano per ricevere un aiuto alimentare da Pane Quotidiano: se non ci fossero organizzazioni sussidiare come questa, come si affronterebbe l’aumento della povertà? Quelle code sono un’implicita ammissione di un fallimento, di un ritardo nell’affrontare un problema importante, un ritardo che non ci si può più permettere. Stiamo diventando un Paese piccolo anche sul piano demografico.

Il Governo conta di aiutare la natalità con l’assegno unico per i figli…

Per carità, questo strumento va bene, ma non è altro che un ristoro, un risarcimento per quel colpo di mano del 1996, quando la Cassa assegni familiari, che era in enorme avanzo, venne depredata delle sue risorse, fatte convergere nel calderone della spesa pubblica.

Dunque non c’è solo in gioco una quota di Pil.

Sottovalutare l’importanza del Recovery fund sarebbe esiziale, perché ci viene data l’occasione di salvaguardare e potenziare due pilastri dello sviluppo e della crescita: il primo è la sanità; il secondo è la scuola, con ciò intendendo cultura e innovazione per le nuove generazioni. Anche finanziare sanità e scuola rappresenterebbe una sorta di restituzione di quanto tagliato negli ultimi 10-15 anni, quando la diminuzione delle somme stanziate in termini reali per queste due voci è stata violentissima e il divario con Paesi come la Germania e la Francia è diventato una voragine. Vorrei ricordare che nel 2018 la spesa pubblica tedesca per la ricerca di base è stata di 32 miliardi di euro, contro gli 8 di quella italiana. Se non partiamo da questi due grandi investimenti, in cui si possono declinare senza problemi alcuni degli obiettivi del Recovery plan, non andremo da nessuna parte. Anche perché il Pil diventerà più leggero, nel senso che la componente immateriale aumenterà e diventerà determinante per la competitività delle imprese e per il miglioramento del tenore di vita delle famiglie.

(Lorenzo Torrisi)