La riunione straordinaria del Consiglio europeo che si è svolta a Bruxelles dal 17 al 21 luglio 2020 entrerà nei libri di storia: per la prima volta, infatti, i Ventisette Paesi aderenti all’Unione europea hanno autorizzato la Commissione a contrarre prestiti per finanziare un piano di aiuti ai Paesi maggiormente colpiti dalla crisi Covid-19. Per la prima volta, hanno deciso di condividere un debito per compiere un’azione dettata (anche) dalla consapevolezza di appartenere a una stessa “comunità di destino”.
Il giorno dopo, com’era facile prevedere, i commentatori sono andati alla ricerca di vinti e vincitori, opportunità e insidie, magari nascoste in qualche codicillo poco visibile. Il fatto certo è che l’Europa ha stanziato ingenti risorse per la ripresa e la domanda importante da farsi, almeno in Italia, è come utilizzare le risorse messe a disposizione dall’Europa.
Per cercare una risposta, sia pure parziale, dobbiamo esaminare, innanzitutto, quali sono le risorse complessivamente disponibili; vedere, poi, di quali risorse l’Italia ha realmente bisogno; e verificare, infine, come utilizzarle.
Nel recente vertice di Bruxelles, il Consiglio europeo ha approvato due correlati provvedimenti: il Next Generation EU e il Quadro finanziario pluriennale (Qfp) per gli anni 2021-27. I due provvedimenti – si legge nelle Conclusioni del vertice – “sono indissociabili”. E la ragione è semplice, dicono i capi di Stato e di governo: “Abbiamo bisogno dello sforzo per la ripresa per rispondere con rapidità ed efficacia a una sfida temporanea, ma questo potrà dare i risultati auspicati ed essere sostenibile soltanto se associato e in armonia con il tradizionale Qfp, che dal 1988 plasma le nostre politiche di bilancio e offre una prospettiva a lungo termine”. L’azione straordinaria (e temporanea) per contrastare la crisi da Covid va cioè inserita nella strategia a lungo termine dell’Unione europea.
L’obiettivo economico che l’Europa persegue ormai da anni è una “buona crescita” e cioè sostenibile (tale da preservare il capitale naturale per le future generazioni), intelligente (fondata sulla conoscenza e l’innovazione) e inclusiva (in grado di generare occupazione riducendo disuguaglianze e povertà). Nel Qfp 2021-27 l’obiettivo della buona crescita è stato esteso e rafforzato prevedendo azioni finalizzate a potenziare la transizione verde (in linea col Green Deal), la trasformazione digitale e la resilienza ovvero la capacità di assorbire tempestivamente shock inattesi. In particolare, sono previsti interventi riguardanti “mercato unico, innovazione e agenda digitale”, “coesione, resilienza e valori”, “risorse naturali e ambiente”, “migrazione e gestione delle frontiere”, “sicurezza e difesa”, “vicinato e resto del mondo” e, infine, “pubblica amministrazione europea”. Una strategia ampia, come si vede, che va oltre l’economia.
Nel bilancio settennale 2021-27 entrate e uscite ammontano a 1.074,3 miliardi di euro (non è consentito il deficit). Le entrate provengono principalmente dagli Stati membri che trasferiscono all’Unione una quota proporzionale del Reddito Nazionale Lordo (Rnl). In passato, le entrate dell’Unione erano pari a poco più dell’1 per cento dell’intero reddito di tutti i Paesi membri mentre i singoli Stati spendevano in media una quota del Rnl superiore al 47 per cento. Nel nuovo bilancio è previsto un massimale per i trasferimenti nazionali pari all’1,4 per cento. Il bilancio è quasi interamente speso per finanziare attività a servizio di cittadini, imprese, istituzioni locali e nazionali.
Qui si pone la controversa questione dei cosiddetti “contributori netti”, tra i quali l’Italia. Spesso si legge o si sente dire che l’Italia dà all’Europa più di quanto riceva. Ed è vero contabilmente, ma è falso economicamente. La Corte dei Conti, per esempio, sostiene che nel 2018 l’Italia ha versato all’Unione europea 17 miliardi di euro e ne ha ricevuti 10,1 con un contributo netto pari a 6,9 miliardi. Alcuni commentatori, hanno stimato che nei prossimi tre anni l’Italia dovrà versare nelle casse europee circa 55 miliardi di euro (gli importi variano in base al Rnl e ad altre grandezze e non sono quindi predeterminati). Si tratta di una verità contabile e di un errore economico. Infatti, i costi e i benefici dell’appartenenza all’Unione europea non possono essere ridotti a un semplice saldo contabile tra entrate e uscite. Si calcola che, senza il mercato unico, il Pil europeo sarebbe inferiore dell’8,7 per cento e vi sarebbero 3,6 milioni di posti di lavoro in meno. Oppure, si pensi ai bassissimi tassi di interesse che i nostri figli pagano sui mutui per l’acquisto della prima casa o a quelli che il nostro Governo paga per finanziare l’enorme debito pubblico. Sarebbero così bassi anche senza l’euro? No, sicuramente no. Oppure pensiamo a un’Italia fuori dal mercato unico europeo: riuscirebbe a mantenere invariato il proprio livello di esportazioni? No, sicuramente no. Chi calcola queste “partite invisibili”? L’Europa è come una famiglia: il contributo e il beneficio di ciascun membro è molto più grande del reddito individuale.
Il Consiglio europeo, insieme al Qfp 2021-27, ha approvato il Next Generation EU, un piano per la ripresa di 750 miliardi di euro, di cui 360 per prestiti agevolati, 312,5 per trasferimenti a fondo perduto e 77,5 per altri interventi. Si tratta di un piano straordinario, limitato nel tempo, al massimo fino al 2026. Il 70 per cento delle sovvenzioni erogate deve essere impegnato nel biennio 2021-22 e il restante 30 per cento entro la fine del 2023.
I fondi del Next Generation EU possono essere utilizzati prioritariamente per finanziare progetti coerenti con le raccomandazioni specifiche che la Commissione europea ha fornito nel tempo ai singoli Paesi e/o funzionali agli obiettivi strategici dell’Unione europea e in particolare a quell’obiettivo di “buona crescita” che essa persegue da tempo. Si legge ancora nelle Conclusioni del vertice di Bruxelles: “Nella valutazione il punteggio più alto deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese, nonché del rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resilienza sociale ed economica dello Stato membro. Anche l’effettivo contributo alla transizione verde e digitale rappresenta una condizione preliminare ai fini di una valutazione positiva”.
Nei prossimi mesi i singoli Paesi sono chiamati a presentare i “piani per la ripresa e la resilienza”. I piani sono valutati dalla Commissione entro due mesi dalla presentazione e sono approvati, a maggioranza qualificata, dal Consiglio europeo su proposta della Commissione stessa. La Commissione, acquisito il parere del Comitato tecnico e finanziario, decide in merito al conseguimento degli obiettivi intermedi e finali e quindi autorizza o nega l’erogazione dei fondi. In “via eccezionale”, uno o più Stati membri, qualora ritengano che gli obiettivi non siano stati conseguiti in modo soddisfacente, possono richiedere che la questione sia esaminata nel successivo Consiglio europeo. È questo il cosiddetto “freno di emergenza”, più debole del classico “diritto di veto” previsto per le decisioni assunte all’unanimità.
A Bruxelles è stato dunque assunto un impegno finanziario pluriennale di 1.824 miliardi (la somma di Qfp e Recovery Fund) a cui vanno aggiunti i già deliberati 540 miliardi per Mes (Meccanismo europeo di stabilità), Bei (Banca europea degli investimenti) e Sure (il programma di assicurazione contro la disoccupazione). Se poi consideriamo anche il Quantitative easing della Banca centrale europea (e cioè l’acquisto dei titoli del debito pubblico), l’impegno complessivo si aggira intorno ai 3.000 miliardi di euro. Insomma, una cifra ragguardevole.
L’Italia è forse il Paese che, almeno potenzialmente, può maggiormente beneficiare degli aiuti europei. Dei 750 miliardi stanziati per il Recovery Fund, 209 sono destinati all’Italia, di cui 80 circa per contributi a fondo perduto e 129 per prestiti agevolati. Inoltre, potrebbe già richiedere i 37 miliardi del Mes e ottenere una quota significativa dei fondi Bei e Sure, mentre la Banca centrale europea continua ad acquistare titoli del debito pubblico italiano.
Qualcuno ha notato che, in realtà, agli 80 miliardi del Recovery Fund occorrerebbe sottrarre i circa 55 miliardi che l’Italia conferirà all’Unione europea nel triennio 2021-23. Ma è un errore perché, come abbiamo visto, quelli sono contributi al bilancio pluriennale europeo che si traducono, per l’Italia come per gli altri partner europei, in una serie di benefici, più o meno quantificabili, derivanti dall’attività (e dall’esistenza stessa) dell’Unione europea. Altri hanno osservato che all’Italia non conviene richiedere i fondi previsti dal Mes considerando le potenziali condizionalità a cui sono soggetti. Ma anche questo è un errore sia perché l’intero piano europeo è, giustamente, sottoposto alla condizione che i beneficiari utilizzino bene, e cioè in modo conforme agli obiettivi prefissati, i fondi donati e prestati sia perché i 37 miliardi del Mes sono erogati a un tasso dello 0,1 per cento, molto più basso dell’inflazione attesa, e quindi con un contributo a fondo perduto (come per esempio un debitore che ricevendo un prestito di 100 anziché restituire 105 restituisse solo 95).
In breve, l’Unione europea ha stanziato ingenti risorse per l’intera Europa e per l’Italia in particolare. Si tratta ora di capire di quali risorse il Paese ha realmente bisogno.
L’economia italiana è afflitta, da tempo, da diversi malanni. Ma il problema dei problemi è la crescita. Da venticinque anni il Paese cresce poco e male. Le cifre sono note e non è necessario ripeterle. Bastano solo pochi dati. La Commissione europea, oltre al Pil effettivo, stima il Pil potenziale e cioè il massimo livello di reddito che un Paese può raggiungere utilizzando al meglio le risorse disponibili e quindi senza generare pressioni inflazionistiche. Ebbene, prima della crisi Covid, la media del Pil potenziale dei Paesi europei oscillava intorno all’1,5 per cento mentre il tasso di crescita del Pil potenziale dell’Italia non superava lo 0.7 per cento: al massimo, l’Italia, prima della grande crisi, poteva crescere a quel tasso e cioè molto poco, e anche male, considerando il fardello dell’enorme debito pubblico.
La crescita potenziale dipende dal numero degli occupati e dalla loro produttività media. Alla fine del 2019, il tasso di occupazione (la percentuale di coloro che, potendo svolgere un’attività lavorativa, la svolgevano davvero) era pari in Italia al 59 per cento e in Germania al 76 per cento mentre, tra il 1995 e il 2018, la produttività del lavoro era aumentata in Italia dell’0,4 per cento e nella media dei Paesi europei quasi del 2 per cento.
Proviamo ad immaginare, al di là delle stime provvisorie, quale sia la reale situazione dell’economia italiana oggi, dopo lo tsunami del coronavirus. Al problema antico della crescita si aggiunge quello nuovo di una crisi devastante. La sfida è quella di ristrutturare profondamente la casa senza farla cadere e salvaguardando l’incolumità di chi la abita. In concreto, si tratta di reperire le risorse, da un lato, per proteggere le famiglie, i lavoratori (non necessariamente i posti di lavoro, almeno quelli insalvabili) e i settori trainanti dell’economia (come il turismo) oggi in crisi e, dall’altro, di agire, finalmente, sulle leve della crescita. Il problema resta quello della bassa produttività del lavoro e non dipende certo dal disimpegno dei lavoratori. La causa di fondo è la stasi della cosiddetta Produttività Totale dei Fattori e cioè di quell’insieme di condizioni esterne che rendono più o meno favorevole la localizzazione di un’impresa in un territorio ovvero in un Paese: l’efficienza della pubblica amministrazione, il livello di tassazione, la qualità e rapidità della giustizia, l’esistenza di una moderna rete di infrastrutture materiali e immateriali (dall’alta velocità, alla banda larga, al capitale umano).
L’Italia ha bisogno di ingenti risorse per sostenere persone, imprese e settori e per avviare una profonda riforma del sistema economico. Ma i fondi europei non possono essere utilizzati per tutto e sono comunque limitati. Che fare dunque?
Alcuni giornali hanno anticipato i contenuti del Piano di Rilancio che l’Italia presenterà a Bruxelles in autunno. In esso sono delineati nove grandi progetti che vanno dalla digitalizzazione, alle grandi e piccole opere infrastrutturali, alla green economy, al sostegno delle filiere in crisi, fino alla riforma della pubblica amministrazione. Nella bozza di Piano sono anche previsti, così pare, investimenti nel sistema sanitario nazionale. Sono idee e progetti condivisibili, anche se ancora senza scadenze e cifre.
È auspicabile che il Piano recepisca un principio ispiratore cardine: utilizzare tutti i fondi europei, compreso il Mes, per finanziare progetti coerenti con le “raccomandazioni” che la Commissione ha reiterato nel tempo all’Italia e che, sostanzialmente, convergono sulla necessità di approntare una serie di riforme strutturali (dalle infrastrutture alla giustizia) per accrescere il Pil potenziale, e quindi la competitività del Paese, liberando dal bilancio nazionale risorse che potranno essere destinate a quelle riforme (dal fisco al welfare) che non possono essere finanziate, o possono esserlo solo in parte, con i fondi europei.
In conclusione, l’Italia dovrebbe elaborare e presentare un Piano organico, finanziato con tutte le risorse disponibili, nazionali ed europee, finalizzato a promuovere, in linea con gli obiettivi strategici dell’Unione europea, una “buona crescita”: sostenibile (e quindi anche green, digitale e resiliente), inclusiva (generatrice di occupazione e solidarietà intra e inter generazionale) ed equa (volta a ridurre disuguaglianze personali e territoriali).
Se l’Italia saprà trasformare la crisi in un’opportunità di rinascimento, allora il vertice straordinario di Bruxelles del luglio 2020 sarà ricordato come un evento importante anche della storia nazionale.