Il Recovery Fund è tema del presente e del futuro. L’Italia si gioca qui la sua ricollocazione tra le economie avanzate. Rispetto alla scelta di come impegnare le risorse del piano, sarà decisiva la consapevolezza di che Paese siamo e di cosa possiamo ancora esprimere in termini di capacità produttiva ed economica.



Dal Secondo dopoguerra, quando l’Italia è entrata a pieno titolo tra i “grandi del mondo”, lo ha fatto perché ha saputo sfruttare il suo ingegno più di ogni altra risorsa. Non abbiamo mai avuto un sottosuolo particolarmente ricco, ma siamo sempre stati abili nella trasformazione delle materie prime che, in buona parte, abbiamo importato. Siamo stati protagonisti di uno sviluppo importante, tanto da ritrovarci tra i 7 Paesi più industrializzati; non solo, il made in Italy è riconosciuto in tutto il mondo come marchio di eccellenza e l’Italia resta ancora oggi la seconda potenza manifatturiera d’Europa dopo la Germania.



Quando diciamo “industria” ci riferiamo a quel settore della nostra economia che contribuisce al 17% del nostro Pil – rispetto a una media europea che si attesta attorno al 15% – e che, attraverso la domanda dei servizi, arriva fino al 60%. Gli investimenti in R&S si fanno quasi interamente (80%) all’interno del sistema industriale di cui una buona parte grazie alle imprese partecipate dal Tesoro (in particolare Finmeccanica-Leonardo, Fincantieri, Enel e Ferrovie).

Il settore manifatturiero è quello che in questi anni, nonostante la crisi, ha garantito al nostro Paese un saldo commerciale positivo che, anzi, negli ultimi 10 anni si è addirittura rafforzato. Nel 2007 avevamo un saldo di 52 miliardi di euro, oggi è di 90 miliardi, grazie in particolare ad alcuni settori produttivi che rappresentano il cuore del nostro sistema: meccanica strumentale, tessile, pellami, chimica, farmaceutica, abbigliamento, calzature, computer, prodotti di elettronica, ottica, apparecchiature elettriche, prodotti in legno, ecc.



Spesso sottovalutiamo che il nostro sistema industriale non è soltanto esportatore, ma è anche fortemente integrato in Europa: il 70% delle nostre esportazioni viaggia, infatti, verso i Paesi europei. In alcuni settori ciò è particolarmente evidente, si pensi a quello dell’automotive: non siamo grandi costruttori di automobili – se escludiamo il segmento dell’alto di gamma -, ma siamo eccellenti produttori di componentistica che contribuisce in modo sostanziale alla competitività, in particolare, dell’industria dell’auto tedesca. In sintesi: l’industria italiana è un pezzo importante dell’industria europea e di quella tedesca in modo particolare.

Ora: l’Italia è dentro la turbolenza planetaria della trasformazione dell’economia e dell’industria senza un progetto condiviso. Il tema della produttività, ovvero della strada per produrre ricchezza, è la discussione che bisogna aprire. Quel poco di crescita che registriamo avviene su un tratto tradizionale del sistema produttivo; resta drammaticamente indietro, invece, una parte la cui precarietà rende molto difficile prevederne un futuro a medio termine. È la parte più refrattaria al cambiamento e resistente ai processi di innovazione. E dentro la congiuntura di questi anni abbiamo perso il 25% di manifatturiero: quali caratteristiche avevano le imprese che hanno chiuso? Erano sottocapitalizzate, non facevano investimenti in innovazione ed erano prive delle giuste competenze.

Intanto, questo spaccato di impresa ha bisogno di un orizzonte, ha bisogno di vedere indicata la strada verso l’innovazione, che è poi la strada che porta l’impresa a stare sul mercato. Non si tratta di attuare politiche dirigiste, ma di tratteggiare un indirizzo di politica di sviluppo chiaro, riconoscibile dalle imprese che spesso rinunciano a incentivi e vantaggi pur di non interfacciarsi con Pubblica amministrazione e burocrazia.

L’occasione del Recovery Fund è storica, saremo in grado di cogliere l’occasione? Le risorse vanno investite nel modo giusto. Si tratta di capire laddove si possono generare fattori di sviluppo e di competitività: c’è qualcosa che avrà un futuro e qualcosa che inevitabilmente non lo avrà. Sarà importante investire su ciò che ci permetterà domani di competere nel mercato internazionale – il mercato europeo sarà sempre più strategico – e su ciò che sarà al centro di processi innovativi. Vi sono i comparti già richiamati che certamente proseguiranno nella loro creazione di valore, ma – tenendo anche conto che il Recovery Fund va per il 35% sulla riconversione delle filiere – avremo sorprese importanti dal recupero delle materie prime e dall’economia circolare, dal mercato dell’energia e dall’elettrificazione della mobilità: Stellantis, da questo punto di vista, è operazione importantissima. Ciò significa investimenti, occupazione e nuove competenze.

Il Paese va innanzitutto infrastrutturato digitalmente. Poi, per la crescita di impresa e lavoro, è indispensabile mettere mano ai gangli storici di fisco, infrastrutture e cantieri, energia, burocrazia e giustizia: in Italia registriamo alti livelli di evasione fiscale come in ogni Paese al mondo in cui la tassazione è alta; i cantieri vanno riaperti, l’energia elettrica ci costa il 30% in più dei nostri partner europei, burocrazia e giustizia sono due potenti fattori di rallentamento del processo economico. Come si fa a star dentro il grande cambiamento mondiale dell’economia con un sistema di regole vecchio e obsoleto? Siamo sicuri che il male del nostro tempo sia il capitalismo e non la burocrazia?

Persino nel momento del bisogno, la burocrazia è riuscita a ostacolare la produzione di camici e mascherine: circa 200 imprese italiane – tra cui Armani, Prada, Nannini – si sono messe a disposizione riconvertendosi “temporaneamente”, nella maggior parte dei casi persino a titolo gratuito. La conformità delle mascherine prodotte era certificata dalle Università (Politecnico di Milano, Alma Mater di Bologna), ma la burocrazia le ha fermate perché mancava il bollino CE (ci vogliono mesi per il bollino CE). È difficile far girare l’economia quando persino nell’emergenza le imprese si ritrovano i bastoni tra le ruote.

Tuttavia, per tornare ai numeri, in Italia il 95,2% delle nostre imprese ha meno di 10 addetti/e e solo lo 0,4% di imprese è di dimensioni medio-grandi. Delle grandi industrie che hanno segnato il miracolo economico resta molto poco. E molto di quel che resta non è più in mani italiane: si pensi, per esempio, alla Fiat oggi FCA-PSA, all’Ilva oggi ArcelorMittal, a Pirelli che in buona parte è di ChemChina, a Ducati e Lamborghini oggi parte del gruppo Volkswagen, ecc. In sintesi, con la globalizzazione, l’industria italiana da un lato si è destrutturata – andando anch’essa a cercare fortuna nei Paesi a basso costo del lavoro -, dall’altro ha ceduto molto a gruppi di capitalismo più robusto, salvaguardando occupazione ma perdendo controllo di asset importanti.

Il nord produttivo è il cuore dell’Italia industriale contemporanea, la politica economica che non è in grado di differenziare e che prescinde da aspetti territoriali non ha più alcun senso. È questo il cuore imprenditoriale del Paese, la sua parte più dinamica che ha chiaramente delle peculiarità rispetto al capitalismo internazionale. Sono imprese che, per quanto diverse dalle grandi multinazionali che tuttavia sono più lente, si muovono in modo molto dinamico e agile, sfornano componenti e prodotti eccellenti e sono abilissime a inserirsi dentro le grandi catene del valore. Parliamo di un mondo che è molto addentro i processi innovativi ed è in continua trasformazione. È anche grazie alle intermedie che in Italia si sta affrontando la transizione energetica con buoni risultati.

E il Sud? Sud vuol dire porti: Taranto, Napoli, Gioia Tauro, Napoli, Bari. È la nostra storia, storia di logistica e di commerci: l’impero romano è crollato quando non ha più fatto manutenzione alle strade e ha perso il controllo dei porti. Abbiamo un patrimonio strategico per il Paese che trascuriamo e di cui si accorgono gli investitori. Il tema dello sviluppo del Paese e della ridistribuzione è un tema di tenuta sociale e che, ancora una volta, si intreccia con la questione del Mezzogiorno. Ma il Sud è dimenticato e lasciato alla criminalità organizzata. O si decide di fare sul serio per la legalità o lo sviluppo al Sud sarà solo per la malavita, inutile girarci attorno.

In sintesi: l’Europa si è messa in moto e ha un progetto di rilancio della sua industria (il Green New Deal) di cui i grandi Paesi – Germania e Francia in particolare – sapranno approfittare. Non possiamo fallire, il rischio è di ritrovarci di molto staccati nel giro di 2/3 anni. Siamo potentemente integrati con la grande piattaforma tedesca: la locomotiva europea tornerà a correre e con lei anche la nostra manifattura, in particolare metalmeccanica (che vale il 50% del nostro export). La ripresa che nel secondo trimestre del 2021 cominceremo ad avvertire in modo evidente – anche per merito dei vaccini – e che nel terzo e quarto crescerà progressivamente, toccherà anche l’Italia. Noi dobbiamo sfruttare la forza del nostro made in Italy e incentivare lo sviluppo – anche a livello di competenze – in particolare di quei settori che costituiranno l’economia di domani: economia circolare ed energie rinnovabili. Certo, dobbiamo fare sistema: non si può fare battaglie contro la Tap e poi volere l’Ilva a idrogeno.

Twitter: @sabella_thinkin