Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è un giurista. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri è uno storico. Se stessimo a guardare ai curricula, nessuno dei due ha quello ideale per pilotare l’impiego della cornucopia di quattrini europei in arrivo con il Recovery Fund. Anzi, verrebbe da dire: in mano a chi stiamo.
Sono 27 miliardi netti a fondo perduto, un regalone da non restituire (sono in tutto 82, ma 55 dobbiamo versarli noi all’Unione come quota di competenza sull’intera operazione); e 127 in prestito ma con scadenze talmente lunghe (2038!) da essere un problema (poveracci loro!) dei nostri nipoti.
Un’occasione d’oro, molto più del piano Marshall, in termini relativi, scontando i cambi e gli adeguamenti statistici del caso. Solo che all’epoca del piano Marshall sedeva a Roma un De Gasperi, contrastato da un Togliatti. E adesso?
E adesso la partita si sposta su due piani incrociati: il confronto/scontro politico e il testa a testa delle personalità. Si può sperare in un lavoro di tandem? Sì, come peraltro si può sperare nella fioritura dei ciliegi in gennaio, nella manna dal cielo e nella fruttificazione degli zecchini d’oro seminati nel campo dei miracoli.
Questa beneficiata finanziaria europea rappresenta la più ricca opportunità di spartizione di potere e denaro che sia mai capitata alla politica italiana da 70 anni a questa parte. Non sarà una partita tra educande: scordiamocelo.
Provenendo il nostro sventurato Paese dall’era del “vaffa” di Beppe Grillo, seguita dalla fase delle ruspe di Salvini e coronata da quella della rottamazione renziana – insomma: botte e insulti agli avversari -, l’unica nota di sicuro miglioramento è che sia Conte che Gualtieri sono due persone educate, che le parolacce le pensano ma non le dicono. Professori universitari, in definitiva.
Dalla sua Gualtieri ha le lunghe frequentazioni europee. Contro di lui, o almeno la sua credibilità, ha l’estrazione dalemiana. Per la precisione: dalemiano di osservanza vacchiana, perché è Beppe Vacca, docente di storia delle dottrine politiche all’Università Aldo Moro, per quasi trent’anni al vertice dell’Istituto Gramsci, il mentore del ministro. Qui l’esegesi si arresta: perché Vacca ha un percorso di studi e di politica lineare e lontano dagli intrallazzi, che rende difficilmente comprensibile la sua sia pur prudente vicinanza a D’Alema. Già: perché è il D’Alema che è in Gualtieri, non il Vacca, a inquietare un po’, se si deve parlare di gestione politica dei soldi. Il dalemismo è stato per l’economia di questo Paese ciò che la xylella è stata per gli ulivi pugliesi. Due dei peggiori pateracchi della storia economica repubblicana, Telecom e Autostrade, a D’Alema e al suo manipolo si debbono, quel manipolo che trasformò palazzo Chigi – copyright dell’imbattibile Guido Rossi – nell’unica merchant bank dove non si parlava inglese.
Se tale fosse l’imprinting economico di Gualtieri nel gestire risorse e non nel fronteggiare penurie – come ha dovuto invece finora fare – ci sarebbe da essere molto preoccupati, ma il suo imprinting, l’abbiamo visto, deriva dall’onesto Vacca.
E Conte? Il premier è la vera sorpresa di questa penosa legislatura. Acchiappato per caso da un gruppetto di scappati di casa che letteralmente non sapevano, né hanno ancora imparato dove abitano – Di Maio, Di Battista, Bonafede e simili – è stato a studiare un anno scarso e poi ha sferrato una controffensiva di glaciale incisività contro il nemico del momento, cioè – un agosto fa – il vicepremier Matteo Salvini. La sua personale durezza, la sua decorosa e imprevedibile buona relazione col Quirinale e la sua misurabile auto-determinazione rispetto ai danti-causa pentastellati lo hanno reso verosimile perno del vergognoso inciucio da cui è nata l’attuale pseudo maggioranza di governo, un paciugo che ha messo insieme due partiti che si odiavano e si insultavano su un programma fatto di niente.
A cementare quest’assurdo, ancora una volta, l’imprevedibile capacità di mediazione di Conte. E poi, l’aiuto ancor più odioso della natura matrigna, il Covid-19, che Conte – al netto delle valutazioni di sintesi, più materia della storia che della cronaca – ha gestito agli occhi dell’opinione pubblica in modo tale da guadagnare molti consensi. E dunque, chi l’ammazza più, in questa legislatura?
È vero: i ministeri – ahimè in primis quello di Gualtieri – e la stessa presidenza intesa come macchina legislativa hanno dimostrato, con la litania dei decreti, una grave inefficienza operativa. Troppa roba, troppo confusa, parziale e inapplicabile. Ok: ma Conte è sempre lì, con più consensi di prima, con una presa personale su una larga fetta dell’elettorato Cinquestelle (o di quel che ne resta), di una parte dei moderati post-democristiani sparsi tra Pd e Forza Italia e con una capacità di lavoro che anche gli avversari gli riconoscono come assai rilevante, quasi da workaholic.
E dunque? Dunque sul breve termine, dovrebbe spuntarla Conte. Per mancanza dei necessari strumenti di pressione da parte dei piddini. Che fanno, lo cacciano? verrebbe da dire parafrasando l’infelice battuta di Fini a Berlusconi. E per mancanza di alternative pentastellate da parte di Di Maio, che lo odia sicuramente più di quanto possa mai odiarlo Zingaretti che peraltro, brava persona, non odia nessuno.
Solo Conte può mettere all’angolo Conte, se dovesse giocarsi il prudente sostegno di Mattarella e se dovesse logorare il rapporto se non buono (mai fidarsi) certo fluido che sembra essersi creato tra lui e alcuni leader europei. Agli occhi dei quali, ponendosi come il garante di tutta la coalizione di governo e non solo come l’espressione di una delle sue parti, ha ovviamente – e ci voleva poco – sorpassato il prudente Gualtieri.
Ma chiudiamo il ragionamento con la domanda delle cento pistole. Se alla prova dei fatti, cioè delle riforme richiesteci dall’Europa per meritarci i soldi del Recovery Fund, il governo Conte si rivelasse indifendibilmente inadeguato, sarebbe immaginabile un governo Gualtieri? Con la stessa coalizione a sorreggerlo? Anche no. In un’ipotesi estrema di quel genere, non resterebbe che il bivio secco: voto subito o governo Draghi di emergenza nazionale. Con Gualtieri, al massimo, ministro di qualcos’altro.