Pochi hanno letto il blog del Prof. Vincenzo Russo dell’Università La Sapienza di Roma in cui si documenta come l’intesa riassunta nelle 68 pagine del comunicato finale del Consiglio europeo del 17-21 luglio non è “l’accordo storico” per il quale vengono usati toni trionfalistici. Se si tiene conto della riduzione del quadro pluriennale finanziario della Commissione europea, dei minori contributi e dei rebates per i Paesi chiamati “frugali”, del rimborso dei prestiti anche se agevolati, delle nuove imposizioni per finanziare il Next Generation EU, l’Unione europea mette in campo meno di un quarto di quanto ha già erogato il Governo federale degli Stati Uniti, per finanziare, in aggiunta a quanto realizzato dai singoli 50 Stati degli Usa, il contrasto a una recessione che minaccia di essere più grave di quella del 1929-1934.
È difficile, ove non impossibile, pensare che lo sforzo europeo possa aumentare. Quindi, occorre fare di tutto perché i 209 miliardi di euro che dovrebbero essere destinati all’Italia arrivino tempestivamente e vengano impiegati bene.
Nel dibattito di questi giorni – come sottolineato su questa testata il 27 luglio – l’accento è soprattutto, ove non interamente, sugli aspetti organizzativi della governance degli aiuti europei. Poco o nulla ci si è soffermato sui contenuti. Non tanto degli investimenti fisici; c’è un lungo elenco negli allegati del decreto chiamato “Rilancio”, ma poco si sa sul loro stadio di preparazione e sulla loro cantierabilità, specialmente di quelli destinati ad aumentare la digitalizzazione dell’economia e a fare transitare l’Italia verso una maggiore compatibilità ambientale. Delle “riforme” non parla quasi nessuno, nonostante da anni la Commissione europea sottolinei l’urgenza di profonde modifiche e ammodernamenti in materia di istruzione, Pubblica amministrazione, giustizia e finanza pubblica.
Per chi ha dimestichezza con queste materie il Next Generation EU, e il sistema di erogazioni per stati di avanzamento e in seguito a serie verifiche, è modellato, in grande misura, sui programmi di structural adjustment, sectoral adjustment e simili da decenni sostenuti dalla istituzioni finanziarie internazionali, in primo luogo dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca Mondiale (ma ora anche dalle banche regionali di sviluppo, con eccezione della Banca asiatica di investimento per le infrastrutture nata su iniziativa della Cina e da Pechino sostanzialmente controllata). In questi programmi, l’investimento fisico ha un ruolo molto meno importante delle riforme, che vengono specificate in dettaglio e devono essere attuate secondo un programma concordato tra Paese beneficiario ed ente finanziatore.
Sono temi su cui riflettere in questo mese di agosto, prendendo l’avvio da esempi concreti. Partiamo dall’istruzione. Tutti sanno che, in termini di apprendimento, l’Italia è quasi l’ultima in classifica tra i Paesi dell’Ocse. Nei tre lustri in cui ho insegnato alla Scuola Nazionale d’Amministrazione ho dovuto introdurre corsi su “come scrivere rapporti economici” perché ero al tempo stesso angosciato e terrorizzato da come redigevano memorie – con errori di sintassi e grammatica, nonché a volte anche d’ortografia – giovani in possesso di una laurea spesso magistrale e che avevano superato un concorso d’ammissione.
Nessuno dubita che l’istruzione, a tutti i livelli, necessita di una profonda riforma, se non altro perché l’ultima riforma complessiva (firmata da Giovanni Gentile) risale a circa cento anni fa e da allora sono stati vari rattoppi.
Problemi analoghi avevano Spagna e Irlanda quando progettavano di chiedere di fare parte di quella che sarebbe diventata l’Ue. Più o meno in parallelo presentarono programmi di riforma e li presentarono alla Banca mondiale perché li finanziasse. Accordi di prestito vennero stipulati per i due programmi. Gli esiti, però, furono differenti.
In Spagna, pochi mesi dopo la firma, ci fu una vera e propria sollevazione di categorie che ritenevano che il cambiamento li avrebbe danneggiati in termini di maggiore carico didattico, sforzo di aggiornamento (tramite corsi obbligatori), minor ruolo. In breve, la riforma venne cancellata (e il Segretario generale del Ministero che la aveva perorata destinato ad altro incarico). Nonostante il Governo perorasse di utilizzare il finanziamento per altri scopi sempre collegati all’istruzione, la Banca Mondiale cancellò il prestito. E chiese il rimborso delle poche somme già erogate.
Più complessa la situazione nella Repubblica d’Irlanda, dove si trattava di creare un sistema di scuole secondarie statali con programmi ispirati a quelle delle scuole britanniche e tedesche in un contesto dove dominavano istituti paritari religiosi che ponevano l’accento sulle materie letterarie (e su quelle a carattere religioso). Ordini e congregazioni cooperarono (sapevano che i tempi stavano cambiando velocemente). La riforma andò in porto. E il finanziamento pure.
Interessante il caso della Corea del Sud. Alla metà degli anni Settanta aveva un reddito pro-capite di 350 dollari (pari a poco più della metà di quello dello Zambia); oggi è salito a 31.000 dollari pro-capite ed è simile a quello dell’Italia. Priva di risorse naturale, la Penisola ha puntato sulle risorse umane. Le sue università tecnologiche, e i dipartimenti tecnologici, erano in stato di sfacelo con laboratori e attrezzature che risalivano in gran misura ai “risarcimenti” giapponesi in seguito alla Seconda guerra mondiale. Con l’aiuto anche della Università Carnegie Mellon di Pittsburgh, i coreani preparano un piano di riforme, finanziato con una linea di credito della Banca mondiale allora considerata enorme.