Nel primo pezzo di questa serie di quattro dedicata ad alcune riflessioni sul nuovo scenario economico globale delineatosi a partire dal “disaccoppiamento” tra le economie cinese e statunitense, ponevo l’attenzione su un effetto importante del disaccoppiamento: e cioè che esso apra la strada alla possibilità che l’Unione europea possa diventare il terzo polo dell’economia globale. Il quesito è: quanto è probabile questo scenario a tre? E quali scelte di politica economica potrebbe e dovrebbe fare l’Ue per stabilire se stessa come attore di pari rilevanza a fianco di Usa e Cina?
Per rispondere a questo quesito occorre prendere atto del fatto che oggi l’Ue è l’attore debole tra i tre, e le ragioni sono presto dette: l’Ue non è uno Stato nazione. Essa non si è dotata di un Governo centrale, “federale” se pensiamo al modello Usa, poiché ai tempi della costituzione dell’Ue i Governi nazionali non hanno voluto cedere i poteri di decisione sulle politiche di spesa e tassazione. La resistenza delle cosiddette élite nazionali a cedere quei poteri è comprensibile, perché si tratta di un potere enorme, quello di decidere la politica fiscale; ma, ovviamente, non è accettabile e va superata, poiché essa costituisce un punto di debolezza drammatico per il funzionamento dell’Ue come economia e come attore sul quadro internazionale. È dunque questa la strada da perseguire: portare le leve del comando fiscale là dove abbiamo portato quelle della politica commerciale nel 1968 e quelle della politica monetaria nel 1999.
La grande crisi pandemica che ha colpito il mondo ormai un anno fa ha avuto degli effetti drammatici sull’assetto politico e sui progetti di integrazione europei. La recessione che avrebbe colpito l’economia si presentava già dall’inizio di portata devastante, al punto che il 20 marzo 2020 la Commissione europea ha attivato la clausola che consente la sospensione del tristemente noto Patto di stabilità, in nome del quale l’economia greca era stata distrutta e il popolo greco portato a soffrire come mai prima, e l’austerità era diventata la parola d’ordine di tutti i politici del tempo. La sospensione delle regole del Patto di stabilità fu decisa per lasciare ai Governi degli Stati membri la libertà di spendere secondo necessità per programmi di assistenza alle famiglie ed erogazione di sussidi alle imprese e fu dunque, in questo senso, una decisione mirata a combattere gli effetti della recessione.
Ma non era, la sospensione del Patto, quella che chiamiamo comunemente una manovra di politica fiscale espansiva: essa non aveva la potenza di una politica di spesa capace, almeno in potenza, di attivare meccanismi di investimento, aumento della capacità produttiva, dei redditi della domanda di beni e servizi, una politica per la ripresa, insomma, come si dice comunemente. È da qui, da questa constatazione della necessità di dotarsi di un progetto di spesa pubblica a carattere comprensivo di tutti i paesi dell’Unione, che nasce il Next Generation Eu. Entrare nei dettagli tecnici del progetto, e del suo elemento più importante che tanta attenzione riceve in Italia, il Recovery and Resilience Facility, non è utile in questo momento: il Governo precedente se n’è occupato, e ora il Governo attuale e il Parlamento se ne stanno occupando, come sa chi segue le notizie sulle vicende politiche del nostro Paese. Quel che occorre sottolineare ora e qui, nel contesto dell’obiettivo di questo articolo, è che il programma Next Generation Eu rappresenta un’iniziativa mai presa prima a livello di politica fiscale. Si tratta di un passo enorme verso quella centralizzazione della politica fiscale della cui mancanza parlavamo poco sopra.
Ma altro è chiedersi se l’obiettivo sia coerente con il ruolo che potenzialmente l’Ue può ricoprire a livello mondiale, altro è chiedersi se lo sforzo sia quantitativamente adeguato. Ovviamente, nessuno sforzo in sé sarebbe adeguato, isolato da una strategia di lunga durata; ma critiche non trascurabili emergono contro la rilevanza quantitativa, e la mancanza di tempestività di questo progetto. Il paragone è con il piano Biden per una spesa per 1.900 miliardi di dollari da destinarsi alla lotta alla sofferenza e alla recessione negli Stati uniti. Il piano Biden è già in discussione al Congresso, e ci si attende che la sua realizzazione, probabilmente per un ammontare minore ma comunque immenso, possa essere avviata a breve. In Europa l’ammontare del finanziamento della Facility, cui i Governi dei paesi membri potranno attingere per finanziare i propri programmi di spesa e di investimento, è enormemente minore, circa 670 miliardi di euro circa 810 miliardi di dollari; e i tempi di erogazione, di allocazione e di spesa appaiono assai più dilatati. Il che equivale a dire che gli effetti sull’economia europea saranno non eclatanti, e non si vedranno presto.
L’Ue sta dunque facendo un passo politicamente e strategicamente assai significativo nel nostro modello a tre Paesi, ma si mostra ancora una volta incerta, timorosa di spendere per paura di non so che cosa, ancora una volta al seguito dell’esempio Usa ma senza veramente capirne la portata e il messaggio di fondo: e cioè, parafrasando la ministro del Tesoro Usa, oggi è meglio sbagliare per aver speso troppo che sbagliare per aver speso troppo poco. Ma, ahimè, l’eredità avvelenata del pensiero che in Europa vuole i bilanci pubblici in pareggio è evidentemente ancora con noi.