Mentre il Comitato interministeriale per gli affari europei (Ciae) ha approvato le “Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”, che verranno trasmesse al Parlamento, la Commissione europea sta predisponendo le proprie linee guida da trasmettere agli Stati membri per aiutarli a preparare i Recovery plan che dovranno poi essere presentati a Bruxelles nei prossimi mesi per essere in seguito approvati, dopo un processo di interlocuzione. Nei giorni scorsi è diventato sempre più chiaro che le prime risorse del Next Generation EU per l’Italia non potranno che arrivare in primavera, e non già quest’anno. «In effetti fino a poco tempo fa si era parlato dell’autunno 2020. Anche Gentiloni, nella sua audizione del 1° settembre in Parlamento, aveva avallato l’idea che potessimo avere una prima tranche entro dicembre. Evidentemente le procedure sono più lunghe del previsto e forse c’è qualche aspetto su cui ancora manca un pieno accordo», evidenzia Massimo D’Antoni, Professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena.



A proposito di procedure, il Next Generation EU dovrà essere ratificato dai Paesi membri, un processo che richiederà del tempo, mentre il Parlamento europeo ha già fatto capire di non gradire il Quadro finanziario pluriennale frutto del Consiglio europeo di luglio che è collegato alle risorse del Recovery Fund e su cui dovrà votare. Sono passaggi “scontati” o si rischiano ritardi o persino modifiche al piano?



Appunto. Le procedure sono complesse e si è peccato, diciamo, di eccesso di ottimismo. Può darsi che nel processo di approvazione ci sia qualche modifica, ma a questo punto mi sembra difficile che possano esserci cambiamenti sostanziali. I leader dei principali Paesi ci hanno investito molto in termini di capitale politico.

Il Ciae ha appena presentato le linee guida per predisporre il Recovery plan italiano. Ha senso quando ancora devono arrivare le linee guida europee?

Non sarei critico se per una volta ci muoviamo in anticipo. Poi, se è vero che attendiamo i dettagli, le linee strategiche sono comunque note: innovazione e digitalizzazione, transizione ecologica, inclusione sociale. La vera incognita riguarda il modo in cui tali programmi dovranno coordinarsi con le politiche di bilancio e le richieste di contenimento della spesa pubblica, che non mancano mai nelle raccomandazioni specifiche dell’Ue relative all’Italia. Ancora non è chiaro come queste spese saranno conteggiate ai fini delle regole fiscali, e questo è un punto cruciale. Io mi auguro che si decida che le spese finanziate dal Recovery fund siano aggiuntive rispetto a quelle consentite dal Patto di stabilità e crescita, ma non possiamo darlo per scontato.



Ci sarà un processo di interlocuzione tra Roma e Bruxelles per definire e valutare i contenuti del Recovery plan. Che differenza rispetto a quanto avviene ogni anno con la Legge di bilancio, che tra l’altro viene approvata anche dal Parlamento (cosa che ancora non è chiaro se avverrà per il Recovery Plan)?

Che ci sia un’interlocuzione mi pare inevitabile, visto che i finanziamenti devono avere il benestare del Consiglio europeo e della Commissione. Gentiloni, nella sua audizione, ha sottolineato più volte che il piano di investimento non sarà scritto a Bruxelles, le proposte dovranno essere formulate dai Paesi membri e l’Ue si limiterà a dare il suo assenso. D’altra parte, è ovvio che questo non significa che a Bruxelles si limitino a fare i passacarte o a dare un’approvazione puramente formale. Immagino dunque un’interlocuzione più intensa di quella normalmente prevista con la Legge di bilancio, anche se certamente meno invasiva di quella che avremmo in caso di un programma di aggiustamento macroeconomico, come quello previsto ad esempio dal Mes. In tutti i casi, sono decisioni strategiche, è impensabile che il Parlamento non debba avere un ruolo centrale.

La Bce ha fatto sapere che porterà avanti il programma di acquisto di titoli di Stato Pepp almeno fino a metà del 2021. Una buona notizia per l’Italia? Una “sfida” alla sentenza della Corte Costituzionale tedesca? O comunque bisognerà stare attenti a quello che deciderà di fare la Bundesbank?

L’incognita principale per il prossimo futuro dell’Italia resta la reazione dei mercati rispetto al debito pubblico, che si prevede possa avvicinarsi al 160% del Pil a fine 2021. Da questo punto di vista, l’azione della Bce è imprescindibile, senza la copertura della Banca centrale sarebbero guai seri. Nell’attuale clima politico, con l’Ue che cerca di riguadagnare popolarità dopo il minimo di questa primavera, c’è una convergenza da parte di tutti i principali protagonisti a sottolineare il clima di cooperazione ed evitare turbolenze. Per l’esito che ha avuto, la sentenza di Karlsruhe ci appare ora più chiaramente come il riflesso di una dialettica interna alla Germania; l’offensiva dei falchi non ha avuto conseguenze destabilizzanti e al momento sembra prevalere la componente più interessata al mantenimento di un equilibrio in Europa. Ma non è detto che in futuro le cose non cambino e quella sentenza vale comunque come avvertimento.

Ieri l’Eurogruppo è tornato ad affrontare il tema della riforma del Mes. Su questo fronte cosa rischia l’Italia? Ci stiamo dimenticando di quello che da alcune parti era stato evidenziato come un pericolo per il nostro Paese fino a prima della pandemia?

Della riforma del trattato del Mes si era parlato molto lo scorso autunno. A tal proposito, con molti altri economisti avevo aderito a un appello che sottolineava i pericoli di questa riforma e più in generale ribadiva che il Mes, più che una soluzione, fosse il riflesso dei difetti dell’architettura monetaria europea. Si tratta di un’istituzione assai peculiare, politico in quanto ha nel suo board i rappresentati dei Paesi aderenti; eppure, a dispetto della parola «solidarietà» nel suo nome, è chiamato da statuto ad agire come una banca, ragionando “dalla prospettiva del creditore”. Anche alcune voci solitamente allineate con le indicazioni europee hanno inoltre rilevato che l’attribuzione ai tecnici del Mes del compito di valutare la solvibilità dei debiti pubblici e l’indicazione esplicita della possibilità di richiedere a un Paese una ristrutturazione del debito potesse avere effetti destabilizzanti nei mercati finanziari.

Nel frattempo in Italia sono tornate a crescere le pressioni interne per accedere al Mes sanitario.

Già, con la pandemia è arrivato il Mes “sanitario” e il dibattito sulla riforma del trattato del Mes è passato in secondo piano. Ma ho sempre sospettato che tra le ragioni per incoraggiarci ad accettare la versione “leggera” con condizionalità ridotte ci fosse quella di sventare il possibile veto italiano alla riforma del trattato. Sarebbe impensabile che l’Italia da una parte chiedesse l’assistenza del Mes e dall’altra si mettesse di traverso rispetto alla riforma delle sue regole.

In una precedente intervista aveva evidenziato come la partita delle regole del Patto di stabilità rimanesse quella fondamentale per il Paese. Eppure non se ne parla. Effettivamente è troppo presto oppure non ci si rende conto dell’importanza di questa partita, specie quando Gentiloni ribadisce che “torneremo alla normalità” lasciando intendere che cambiamenti delle regole non sono in vista?

Ribadisco quanto dissi: quella delle regole del Patto di stabilità resta, accanto al sostegno al debito italiano da parte della Bce, la partita più importante per l’Italia. Non se ne parla, quasi che evitando di prendere il discorso si contribuisse a un rinvio del ritorno delle regole. Ma se le regole in essere devono essere modificate, sarebbe bene avviare quanto prima una discussione pubblica. Anche perché senza capire dove andremo a parare risulta difficile dare un giudizio ponderato su quel che ci aspetta come Paese e come Ue.

(Lorenzo Torrisi)