Sull’Unione europea aleggia il fantasma della Dieta polacca, quella composta dai vari potentati della Confederazione polacco-lituana e che doveva votare ciascun provvedimento all’unanimità. Il risultato fu le tre spartizioni della Polonia della Confederazione nel XVIII secolo tra Prussia, Impero Russo e Impero Austriaco, l’istituzione (di breve durata) del Ducato di Varsavia da parte di Napoleone (grazie a Maria Walewska, per cui aveva perso la testa e da cui ebbe un figlio), la nuova spartizione dopo il Congresso di Vienna, sino alla costituzione della Repubblica di Polonia con il Trattato di Versailles dopo la Prima guerra mondiale.
Il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Ue del 19 novembre si è concluso con un nulla di fatto in materia di quadro finanziario pluriennale e anche nel Next Generation Eu (Neu) e del Resilience and Recovery Fund (Rrf), a ragione del voto contrario di Polonia e Ungheria. Sono numerose le materie che richiedono un voto all’unanimità nell’Ue (le trovate riassunte in coda all’articolo), così come lo erano nella Confederazione polacco-lituana. Tale meccanismo, come quello di co-decisione tra Commissione europea, Parlamento europeo e Consiglio europeo, era forse adatto alla Comunità economica europea composta di sei o anche undici Stati con un minimo denominatore di cultura politica comune. Ma si rivela del tutto inappropriato per un’Ue a 27 in cui alcuni Stati provengono da lunghi periodi in cui nei loro Paesi non venivano adottati gran parte dei principi di democrazia liberale scritti nei trattati fondanti dell’Ue.
Polonia e Ungheria hanno votato contro il bilancio (e quindi il Neu ed il Rrf) perché il programma quale risultante da lunghi negoziati tra Commissione e Parlamento europeo prevedeva che essi adottassero misure per realizzare uno “stato di diritto” (che includesse indipendenza della magistratura e libertà di stampa) quale previsto nei trattati fondanti dell’Ue. Richiesta giustificata e correttissima sotto il profilo legale, ma irricevibile perché Polonia e Ungheria non hanno conosciuto lo “stato di diritto” né prima dei 70 anni di appartenenza alla sfera d’influenza dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, né nel ventennio tra la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Conosco bene i due Paesi. Due esperienze personali. Nel 1996, quando la Polonia stava negoziando l’ingresso nell’Ue, andai con una delegazione della Scuola nazionale d’amministrazione italiana a stipulare un accordo con l’analoga Scuola d’amministrazione polacca che faceva parte dell’Accademia delle Scienze, delle Arti e delle Cultura della Repubblica. Venimmo invitati a cena in una villa che era stata di Maria Walewksa. Sedevo alla destra della Vicepesidente dell’Accademia, una gentile signora che mi spiegò che il Paese «era diventato così democratico che chiunque faceva professione di non essere tale veniva subito spedito in prigione». Sempre per la Sna, nel 2005 andai a tenere un corso sull’economia dell’informazione per dirigenti e funzionari della Presidenza del Consiglio ungherese e mi venne subito spiegato che il mercato per funzionare doveva essere “pilotato” dal Governo.
Quale fosse la situazione lo si sapeva bene prima del loro accesso all’Ue. Arduo chiedere ora, a oltre tre lustri dal loro ingresso nell’Ue, che seguano regole e prassi molto distanti dalla loro cultura politica. Meglio aspettare che a poco a poco, forse con piccoli passi, la situazione migliori,
È da augurarsi che il nodo si risolva al Consiglio europeo del 10-11 dicembre l’ultimo presieduto dalla Germania prima che passi la mano al meno forte Portogallo. Polonia e Ungheria hanno interesse a una soluzione perché sono tra i maggiori beneficiari dei finanziamenti europei. Lo ha forse ancora di più l’Italia che ha già messo a bilancio, nel bilancio triennale appena giunto all’attenzione del Parlamento, l’arrivo dei finanziamenti del Rrf, nonché di altri fondi europei. In particolare, le risorse europee, in larghissima misura dal Rrf, apporterebbero 25 miliardi l’anno prossimo, 37,5 nel successivo, 43 nel 2023, e poi a calare fino a 27,5 nel 2026. È, poi, implicita nella relazione che accompagna il disegno di legge di bilancio, la continuazione, per diversi anni, del programma di acquisti di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea con il programma Pandemic emergency purchase programme (Pepp).
Nel breve periodo, l’Italia non ha che da adoperarsi perché si giunga presto e bene a una soluzione. Nel medio, ove l’Italia avesse un Governo considerato autorevole in quello che un tempo veniva chiamato “il consesso europeo”, dovrebbe, nel quadro dell’imminente Conferenza sul futuro dell’Europa, insistere per una riforma del sistema di votazione. Al fine di mettere in fuga il fantasma della Dieta polacca.
Materie che richiedono voto all’unanimità nell’Unione europea
Il Consiglio deve votare all’unanimità su una serie di questioni considerate sensibili dagli Stati membri. Ad esempio:
– politica estera e di sicurezza comune (esclusi alcuni casi ben definiti che richiedono la maggioranza qualificata, quali ad esempio, la nomina di un rappresentante speciale);
– cittadinanza (concessione di nuovi diritti ai cittadini Ue);
– adesione all’Ue;
– armonizzazione della legislazione nazionale in materia di imposte indirette;
– finanze Ue (risorse proprie, quadro finanziario pluriennale);
– alcune disposizioni in materia di giustizia e affari interni (Procura europea, diritto di famiglia, cooperazione di polizia a livello operativo, ecc.);
– armonizzazione della legislazione nazionale in materia di sicurezza sociale e protezione sociale.
Inoltre, il Consiglio è tenuto a votare all’unanimità per discostarsi dalla proposta della Commissione quando quest’ultima non è in grado di accettare le modifiche apportate alla sua proposta. Tale norma non si applica agli atti che il Consiglio deve adottare su raccomandazione della Commissione, ad esempio nel settore del coordinamento delle politiche economiche.
In caso di voto all’unanimità, un’astensione non impedisce l’adozione di una decisione.