L’uomo si è sempre considerato al centro del mondo con una visione di potenza e ha sempre visto la natura come funzionale al suo benessere. L’evoluzione contribuì a progredire l’uomo: divenne abile, in grado cioè di creare strumenti, avendo trovato i mezzi per amplificare le sue forze ed espandere le sue capacità.



Dopo le grandi glaciazioni la natura era ancora in grado di fornire i mezzi di sussistenza attraverso la caccia e la raccolta, e la progressiva modifica empirica dei metodi di coltivazione aiutarono la nascita dell’agricoltura, la scoperta del fuoco, la domesticazione degli animali e l’irrigazione quali tappe fondamentali dell’espansione umana, le basi tecnologiche della grande trasformazione, l’ingresso vero e proprio dell’uomo nella storia. E così nelle civiltà i rapporti fra l’uomo e la natura si sono svolti secondo il livello tecnologico della popolazione residente. A un livello tecnologico base, l’impatto dell’uomo sulla natura è sempre stato modesto o nullo, più il livello cresce più l’ambiente viene condizionato.



Le prime inquietudini sullo stato di salute del pianeta cominciarono a manifestarsi negli anni Cinquanta del secolo scorso: le preoccupazioni per l’ inquinamento e il degrado ambientale e per l’esaurimento delle risorse disponibili vennero dagli ambienti scientifici. Si manifestarono le prime perplessità sull’azione dell’uomo sull’ambiente. Da una parte aumentò la consapevolezza dei guasti prodotti dall’inquinamento, dal degrado ambientale, dalla rottura degli equilibri naturali – i cosiddetti ecosistemi – e dall’altra si consolidava il bisogno di riconoscere il valore intrinseco della natura, si delineava, cioè, la necessità di modificare gli atteggiamenti e i comportamenti della gente nei confronti della natura.



L’opinione pubblica prendeva coscienza di un nuovo imperativo ecologico: l’agire in modo da garantire il rispetto dei sistemi viventi attuali e futuri. Questo imperativo si è affiancato all’agire umano, molte volte antagonista al consumismo. Se da una parte, infatti, vi è la consapevolezza ambientalista, dall’altra vi è la ricerca del benessere, effimero e di réclame, che determina il consumismo, espressione del capitalismo. La società negli ultimi trent’anni si è repentinamente trasformata. Siamo sempre più schiavi della moda, si ricerca il benessere immediato legato al consumo e non il futuro ancorato al sacrificio e al risparmio. Il consumismo è un fenomeno che distrugge risorse non per bisogno, ma per desiderio e in questo contesto economico e sociale la politica è rimasta a lungo insensibile e legata prevalentemente alla crescita economica.

La tutela dell’ambiente è un costo nella logica imprenditoriale del conto economico delle società industriali capitalistiche, non si percepisce la sua inerenza e i suoi effetti sui ricavi. Effetti che non essendo immediati non vengono quantificati, e questo è un problema di sensibilità di percezione etica, in quanto possono essere considerati ricavi anche i minor costi futuri che la società umana dovrà sopportare. Ad esempio, come minori spese mediche e assistenziali per malattie degenerative derivanti dallo stress, dall’inquinamento, dalle bonifiche tardive del suolo o delle acque, o dal costo che la comunità dovrà sostenere per alluvioni, esondazioni , bradisismo, a causa del degrado manutentivo del territorio.

L’emergenza Covid – come abbiamo già evidenziato – ha profondamente condizionato il sistema sanitario italiano con riflessi profondi sulla crescita economica e sulle abitudini degli italiani, un evento che deve far riflettere, sotto un profilo socioeconomico ambientale, anche analizzando alcune evidenze empiriche che si vuole portare all’attenzione del lettore.

In particolare, emerge una stretta correlazione fra il numero di malati di Covid, la loro residenza geografica, il Prodotto interno lordo procapite e le soglie dell’inquinamento atmosferico per le polveri sottili (Pm10) e il biossido di azoto (NO2). Se guardate il primo grafico qui sotto, che evidenzia l’andamento delle concentrazioni di Pm10 nel 2017, potete osservare come il nord Italia con la Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna è l’area europea più inquinata, oltre alla Polonia. Fate poi un confronto con il secondo grafico – la mappa del contagio – estratto dal sito del ministero della Sanità e pubblicata on line dai principali siti dei quotidiani italiani, riflettete e traete le conclusioni.

L’impatto sanitario dovuto alle polveri sottili è ormai conosciuto a livello internazionale. Secondo gli ultimi dati dell’Agenzia ambientale europea (Eea) contenuti nel report Air Quality in Europe 2019“, sono oltre 483 mila le morti premature in Europa dovute a eccessivi livelli di polveri sottili (Pm2,5) e Nitrati (NO2) e l’Italia con 73.200 morti premature annue si trova al primo posto (dati riferiti al 2016), seguita dalla Germania con 71.500, ma con 82 milioni di abitanti rispetto ai nostri 60 milioni. Al capitolo 10.3 del rapporto, per le sole polveri sottili la popolazione urbana europea ha avuto 420.000 morti premature che potrebbero ridursi del 27% a 290.000, se l’Europa si adeguasse ai parametri dei valori inquinanti massimi indicati dell’Organizzazione mondiale della sanità e riportati nelle sue linee guida dello stato dell’aria (Aqg).

Numeri, questi, che devono far riflettere su come l’inquinamento atmosferico potrebbe aver condizionato l’emergenza sanitaria Covid e non solo. Non dimentichiamo che le malattie cardiache e ictus sono le più comuni patologie che causano morti premature delle persone dovute all’inquinamento atmosferico, seguite da malattie polmonari e cancro ai polmoni. La correlazione tecnologia e ricchezza è un altro indice di riflessione: la distribuzione del Pil a livello europeo rappresentata in questo grafico evidenzia che la Lombardia è una delle regioni più ricche di Europa, seguita in seconda fascia da Veneto ed Emilia Romagna. Le nostre regioni colpite da Covid, però, sono più inquinate rispetto ad altre regioni industriali europee a parità di Pil.

Chiudiamo con un’ulteriore informazione in merito alla densità abitativa europea e di italiana. Dal grafico che segue si osserva l’alta densità abitativa delle province lombarde colpite da Covid-19.

Interessante notare che le aree densamente abitate della Germania, con un Pil elevato come la Lombardia, non hanno avuto rilevanze epidemiologiche Covid correlate dirette con l’Italia, ma difformi. Le cause possono essere il diverso metodo di identificazione dei casi ovvero – in caso di identica procedura di rilievo – di una diversa attenzione ambientale che la politica tedesca ha perseguito.

I Recovery Funds sono nati per ridare fiato alle economie europee e hanno bisogno di essere supportati da una visione e da una strategia di politica industriale europea, non sussidi, ma progetti di investimento in infrastrutture e riconversioni industriali finalizzate a migliorare l’ambiente. Dove se non in Italia, lo Stato europeo più colpito dalla pandemia, in particolare le regioni del nord, che sono fra le più inquinate d’Europa? I fondi europei possono senz’altro essere una occasione unica per una vera svolta green dell’industria italiana.

In questo mare magnum di idee per i sussidi, le rendite e le prebende, non è sufficiente individuare l’ecobonus del 110% al settore residenziale per stimolare il settore edilizio. Bonus che con le coperture dei fondi assegnati oggi soddisferà non oltre 45.000 unità immobiliari, rivelandosi una grande illusione per le migliaia di richieste che rimarranno inevase. I Recovery Funds copriranno questa domanda che può essere almeno dieci volte superiore? Tutti gli italiani, infatti, vorranno ristrutturare la propria casa a spese dello Stato. Ancora una volta si guarda all’elettorato, ma una volta valorizzato il patrimonio immobiliare dei cittadini italiani, si sarà creata un’industria tecnologicamente competitiva nel settore a livello mondiale o compreremo pannelli fotovoltaici e caldaie a pompa di calore e infissi stranieri?

La politica industriale deve anche focalizzare l’attenzione alle imprese italiane, vero motore di sviluppo del Paese e alle vere emergenze, incentivando soluzioni di conversioni industriali di processo per l’abbattimento dei fumi e delle polveri sottili, nonché la mobilità elettrica, e incentivando infine la creazione di iniziative imprenditoriali di avanguardia nel settore ambientale, cogliendo una sfida per assicurare alle generazioni future un ambiente sano e un’industria competitiva nella eccellenza green.

A Davos nel gennaio scorso il grande capitale e la finanza internazionale hanno compreso il problema ambientale, evidenziando come si modificherà la selezione degli investimenti finanziari, solo le società che avranno un programma specifico di salvaguardia ambientale saranno oggetto di attenzione, chi non si adeguerà uscirà dal mercato. Si segnala, a proposito, un recente articolo su Foreign Affairs 2020 di Rebecca Henderson. In una ricerca di identità di rinascita economica, quale migliore occasione per l’Italia per essere al passo con i grandi cambiamenti.

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