Conte si propone di unire i paesi del Mediterraneo nella trattativa sul Recovery Fund in vista del Consiglio europeo del 16 e 17 luglio. “L’Europa, se vuole condividere valori e interessi comuni, deve esprimere una risposta politica elevata”, ha detto ieri Conte a Madrid, “quella del debito comune europeo”. Vale a dire un Recovery Fund più di trasferimenti a fondo perduto e meno di prestiti, come invece vogliono i paesi rigoristi Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, che difendono l’ortodossia europea (consegnando alla Merkel il ruolo della mediazione).



Per Agustín José Menéndez, docente di diritto pubblico e comparato nell’Università Autonoma di Madrid, Conte e Sánchez commettono un errore di strategia: puntare sulla difesa del mercato unico. La Germania, secondo il giurista, si imporrà anche questa volta, perché “gode di quello che si potrebbe chiamare un privilegio esorbitante”.



Il tentativo di coalizione anti-paesi “frugali” ha possibilità di successo?

Le condizioni oggettive per un “blocco del Sud” ci sono. Il lockdown, pur essendo assolutamente necessario per frenare il coronavirus, ha avuto effetti economici molto diversi nel Nord e nel Sud dell’Eurozona. In più, alcune delle misure di emergenza prese dall’Unione Europea, non meno della tolleranza quasi totale verso gli aiuti di Stato, hanno fatto aumentare ancora il divario. Tra Stato e Stato ci sono differenze di potenza fiscale enormi.

Questo vuol dire che il blocco è cosa fatta?

No. Per agire in maniera coordinata ci sarebbe bisogno di una visione alternativa e condivisa dell’Eurozona, che non vedo emergere, oltre la retorica più o meno fiorita.



Un paese come la Spagna è realmente interessato?

I dati aggregati della Spagna sono drammatici – come lo sono quelli italiani, anche quelli francesi: oltre il 10% di caduta del Pil, disavanzo leggermente sotto il 10% del Pil, fortissimo rialzo del debito pubblico e di quello delle imprese. Elaborare una strategia comune con altri paesi che si confrontano con gli stessi dilemmi sarebbe fare di necessità virtù. Qui sorge però un problema rilevante.

Quale?

La tentazione è supporre che seguire la linea del governo tedesco potrebbe comportare benefici non raggiungibili in un altro modo. La fragilità di tutti i partiti politici spagnoli, che si sta facendo più grave ogni giorno, non aiuta un ripensamento della strategia europea dello Stato.

Conte in Portogallo: “occorre reagire, o questa crisi epocale distruggerà il mercato unico”. Sánchez al Corriere della Sera: “il Fondo è una casa comune cui contribuiscono tutti. Se non ci muoviamo, è in pericolo anche il mercato unico; da cui i piccoli paesi dell’Europa centrale traggono un vantaggio maggiore del nostro”. Le sembra che l’obiettivo di salvare il mercato unico sia la strategia giusta?

Non a torto, ritengono che se si invocasse la solidarietà la partita sarebbe persa prima di cominciare. Facendo riferimento al “mercato unico”, però, credono di parlare la stessa lingua dei paesi “frugali”, sintonizzandosi sui loro argomenti. Ma così rischiano di sbagliare pesantemente. L’insourcing delle catene di valore è già in marcia. Per non parlare delle nazionalizzazioni – da Lufthansa in poi –, che certamente non si stanno facendo per amore della giustizia sociale, ma per tenere i vantaggi competitivi. Sarebbe già un passo avanti se si tornasse a parlare di “mercato comune”, nel quale non c’era spazio per la liberalizzazione senza limiti dei movimenti di capitali ai paesi terzi, paradisi fiscali inclusi, dalla quale traggono benefici paesi come l’Olanda o il Lussemburgo.

“L’essenziale” ha detto Sánchez al Corriere “è che l’Europa costruisca un proprio modello: trasferimenti, debito condiviso, rilancio dello stato sociale. E rafforzamento della sanità pubblica”. Ma un modello l’Europa ce lo ha già. Ci sono le condizioni per modificarlo?

Mi sembra che il conflitto tragico tra la visione socio-economica delle nostre costituzioni (quella italiana del 1948 e quella spagnola del ’78) e il modello socio-economico del mercato unico e la moneta unica non si possa superare facilmente. Certamente la crisi ha creato le condizioni per una messa in questione del consensus di Bruxelles. Ma non basta un po’ di redistribuzione in più, come non è sufficiente aggiungere un 0,5% di Pil al bilancio annuale dell’Ue.

Quali sono gli strumenti a disposizione della Germania e dei paesi satelliti per rompere l’eventuale fronte dei paesi mediterranei?

Lo strumento disciplinare per eccellenza nell’Eurozona è il credito, grazie all’abolizione dei privilegi del debito pubblico. Gli Stati sono letteralmente nelle mani degli erogatori del credito, siano essi gli attori dei mercati finanziari, il Mes o la Bce. Ma alcuni Stati sono più uguali degli altri, in particolare quelli di cui gli attori dei mercati finanziari si fidano come emittenti di safe assets (beni sicuri). Così la Germania gode di quello che si potrebbe chiamare un “privilegio esorbitante”. Privilegio che ha saputo tradurre in un complesso meccanismo di condizionalità che va dal Mes al semestre europeo.

Che cosa sarà degli Stati più in difficoltà come l’Italia, in attesa dei soldi del Recovery Fund?

Gli Stati del Sud saranno appesi al credito della Bce fino alla fine dell’anno, probabilmente oltre. Non è improbabile che la Bce debba acquistare più del 33% di ogni emissione di debito pubblico, cosa vietatissima non soltanto secondo la Corte costituzionale federale tedesca, ma anche secondo la Corte di Giustizia europea. In quel caso emergerebbe fortemente il potere strutturale della Germania, anche tramite la Bundesbank. Non sarebbe un bene per nessuno. A me pare che questo scenario confermi che senza cambiamenti profondi, l’Eurozona non è sostenibile nel medio termine.

Qual è la via di uscita?

O si riesce ad allineare l’Unione economica e monetaria ai fini democratici e sociali dello Stato costituzionale, o si ripristina il costituzionalismo democratico e sociale a livello nazionale. L’enorme difficoltà nel percorrere ognuna di queste due vie ci fa sentire, per dirla con Claus Offe, “intrappolati”. In questo percorso ci vuole tantissima saggezza…

(Federico Ferraù)