Tutti si interrogano su chi sta facendo che cosa, al governo, per consegnare in tempo alla Commissione il Recovery and Resilience Plan, contenente i progetti per poter accedere ai fondi europei anticrisi. E sapere dal viceministro all’Economia Misiani di “500 progetti” – etichettati da Giavazzi sul Corriere come “centinaia di proposte senza priorità” – in effetti non è tranquillizzante.
Invece ad ascoltare l’economista Enrico Giovannini, già presidente dell’Istat e ministro del Lavoro nel governo Letta, molte tessere del puzzle vanno al loro posto. Quasi tutte. La strada è tracciata, al governo spetta di metterci i contenuti. Potrebbe richiedere meno fantasia del previsto. E le linee guida europee per l’elaborazione del piano, non ancora rese pubbliche?
“Siamo stati premonitori” ammette Giovannini. “Nel nostro rapporto avevamo indicato tre priorità fondamentali: digitalizzazione, transizione ecologica e lotta alle diseguaglianze. Se lei legge le conclusioni del Consiglio europeo trova esattamente questi tre punti. Adesso ci aspettiamo che molte delle nostre raccomandazioni di lungo termine possano essere recepite nel piano del governo”.
Ma di quale rapporto parliamo e di quali “raccomandazioni di lungo termine”? L’8 giugno scorso il comitato presieduto da Vittorio Colao consegnava, dopo due mesi di lavoro, il suo piano al presidente del Consiglio. “A giudicare da quello che è successo” spiega Giovannini “le posso garantire che non è stato messo nel cassetto”.
Sul Recovery Plan regna molta incertezza. Sembra che il governo non stia facendo nulla.
Lo escludo. Il governo ha avviato i lavori del Recovery and Resilience Plan (Rrp) coinvolgendo i diversi ministeri e mi aspetto che a settembre venga pubblicata una prima versione del piano, destinata al confronto in parlamento. Il punto non chiaro, però, è il metodo.
Qual è il problema?
Bisognerebbe sapere se si intende seguire prevalentemente un approccio “dal basso”, cioè sulla base degli input dei singoli ministeri, o se si voglia seguire uno schema logico predefinito, come quello che abbiamo sviluppato nel Comitato Colao, poi in gran parte ripreso del documento del governo per gli Stati generali. In più c’è il nodo dei tempi, anche perché sono ancora attese le linee guida della Commissione su come preparare il piano.
Cosa può dirci in proposito?
La Commissione si è dotata di una struttura di lavoro molto articolata, dedicata ad assistere i singoli paesi nell’elaborazione del piano. Le linee guida sono attese per fine agosto. Quindi, è probabile che ciò che il governo sta preparando sarà un lavoro interlocutorio, forse da rivedere alla luce delle linee guida europee.
Ci sta dicendo che non c’è fretta?
Il governo ha detto che conta di presentare il piano alla Commissione a metà ottobre. Questo è un punto sul quale personalmente ho espresso qualche perplessità, perché predisporre un piano così articolato non è cosa che si può fare in qualche settimana.
Sappiamo che l’accordo raggiunto in Consiglio europeo prevede che i paesi presentino il Rrp da metà ottobre fino ad aprile 2021.
Proprio per questo, poiché i fondi non arriveranno prima di metà 2021, è importante che le cose vengano fatte bene, non necessariamente di corsa. Se il governo dovesse richiedere più tempo per lavorarci, non credo che nessuno dovrebbe stracciarsi le vesti.
Veniamo alle linee guida europee. Quanto saranno stringenti?
Io non le ho viste e per questo non so risponderle, però l’accordo raggiunto in Consiglio europeo prevede alcuni punti molto qualificanti e condivisibili, per esempio il fatto che i progetti che verranno presentati dovranno necessariamente, come precondizione per essere accettati, contribuire alla digitalizzazione e alla transizione ecologica, oltre che all’aumento della resilienza socioeconomica.
In che modo secondo lei questo impianto condizionerà le proposte del governo?
Se io propongo di chiudere una centrale a carbone e di sostituirla con un impianto di energia rinnovabile, è evidente che sto contribuendo alla transizione ecologica. Ma se propongo di fare un ponte su cui passano solo automobili e Tir, e non treni, non è detto che passi: in ogni caso, l’onere della prova per mostrare che i progetti sono in linea con l’accordo europeo spetta al governo, il che può richiedere un certo lavoro.
Veniamo al piano Colao, che reca anche la sua firma. È stato redatto in piena pandemia, è stato scritto all’estero, è stato presentato e messo nel cassetto. Qual è il suo vero ruolo?
È una ricostruzione scorretta. Durante il lockdown, probabilmente lei, come noi, ha lavorato in smart working. Non è stato predisposto all’estero, è stato predisposto lavorando a distanza, con l’obiettivo, perfettamente chiaro, di pensare al dopo-Covid mentre il governo era impegnato a gestire l’emergenza. È esattamente lo schema di lavoro che io avevo proposto fin dal 6 marzo.
E dopo?
Finito il lavoro, il Comitato ha consegnato il piano al committente, cioè al governo, che era libero di farci quello che riteneva opportuno. A giudicare da quello che è successo, le posso garantire che non è stato messo nel cassetto. Se andiamo a vedere, l’impostazione del piano Colao è confluito negli Stati generali e diverse proposte sono state inserite nei decreti Semplificazione e Rilancio. Su altre questioni, mi lasci dire, siamo stati premonitori.
In che senso?
Nel nostro rapporto avevamo indicato tre priorità fondamentali: digitalizzazione, transizione ecologica e lotta alle diseguaglianze. Se lei legge le conclusioni del Consiglio europeo trova esattamente questi tre punti. Adesso ci aspettiamo che molte delle nostre raccomandazioni di lungo termine possano essere recepite nel piano del governo.
La green economy e le rinnovabili hanno un ruolo chiave. Però è lecito nutrire qualche dubbio sulla loro efficienza: hanno costi enormi rispetto all’energia che producono.
No: il costo per kilowattora delle rinnovabili nei paesi sviluppati prima del crollo del prezzo del petrolio era inferiore al costo delle energie classiche. Già prima, quindi, erano efficienti e anche convenienti, tanto è vero che l’ultimo rapporto dell’Irena (International Renewable Energy Agency) mostra chiaramente che la quota di investimenti in energie rinnovabili era in forte aumento nel 2019. Con il crollo del prezzo del petrolio la situazione è temporaneamente cambiata, ma nel momento in cui la Ue si pone l’obiettivo della decarbonizzazione entro il 2050, la strada intrapresa è segnata e – mi lasci aggiungere – giusta e doverosa.
L’Italia è pronta per questo passaggio?
Noi abbiamo da tempo una quota di energia rinnovabile in linea con quella immaginata per il 2020 e siamo decisamente avanti rispetto ad altri paesi Ue. Dobbiamo invece fare importanti progressi sulla via della decarbonizzazione e non è chiaro come ciò dovrebbe accadere. Il Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) presentato dal governo alla Commissione Ue nel gennaio scorso prevede un taglio delle emissioni al 2030 e al 2050 che non è coerente con i nuovi obiettivi Ue.
Quindi?
Poiché il Pniec diventerà un punto cruciale per giudicare i progetti che verranno finanziati con il Rrp, il governo dovrà rapidamente assumere una posizione chiara e mettere mano a questi obiettivi nell’ambito del processo in corso a livello europeo, che dovrebbe concludersi a settembre. Da questo dipenderà anche il finanziamento di progetti che dovranno andare in questa direzione.
Sappiamo che il patto di stabilità sarà riattivato. Molti Stati si troveranno a fronteggiare una procedura di deficit eccessivo. Secondo Mario Draghi “è probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e quando lo saranno certamente non lo saranno nella loro forma attuale”. Lei cosa dice?
Sono d’accordo con Draghi. Aggiungo che la stessa Commissione aveva già avviato prima della pandemia la procedura, mi passi il gioco di parole, per rivedere la procedura di deficit eccessivo. Dopo di che la crisi ha bloccato tutto, ma si prevede che nel 2021 la discussione riprenda. Ovviamente, questo dibattito sarà arricchito dalla capacità dei singoli Paesi di rispondere in senso positivo alle crisi facendo quello che Draghi ha chiamato il debito buono. La partita è aperta ed è presto per capire che cosa accadrà.
È questo il vero momento Hamilton di costruzione federale dell’Ue?
Di fatto sì, anche se in una forma diversa. Gli Usa decisero di varare il debito comune non sull’onda di una crisi drammatica come l’attuale, ma di un progetto istituzionale a tutto tondo. Ma non dimentichiamo che anche negli Usa l’espansione delle funzioni federali è avvenuta a fronte di crisi che i singoli Stati non potevano gestire in modo efficace. L’Ue sta facendo esattamente lo stesso percorso, anche se oggi la decisione di creare debito comune viene vista come eccezionale e temporanea, più che come il new normal. Come andranno le cose lo vedremo più avanti, anche se sono convinto che, una volta accettato il principio e nell’ipotesi che i Paesi dimostrino di essere all’altezza della sfida di spendere bene i fondi, il tema verrà affrontato senza i pregiudizi del passato. Per questo, il comportamento dell’Italia con i fondi europei è così importante, anche ai fini del futuro dell’Unione Europea.
Non crede che l’instaurazione del momento Hamilton europeo abbia una contropartita da valutare attentamente, e cioè il grado di democraticità – prossimo allo zero – delle decisioni europee rispetto alle comunità nazionali dei singoli Stati?
Il tema esiste, anche se il parlamento europeo sta facendo bene il suo lavoro. Ma i suoi poteri sono limitati, mentre dovrebbero essere rafforzati, ad esempio attraverso il potere di iniziativa legislativa, oggi assegnata solo alla Commissione. Sono comunque grandi temi che spero possano essere affrontati nella conferenza sul futuro dell’Ue che dovrebbe tenersi nel 2021, la quale mi auguro dia nuova spinta al progetto di un’Europa federale.
(Federico Ferraù)