Il monocolo incastrato con cura nell’orbita dell’occhio destro, la luce puntata sulle mani che si muovono sicure e veloci, l’aggeggio del mestiere usato come un bisturi. Il vecchio orologiaio opera febbrile sotto lo sguardo ammirato del cliente. Che si tratti di cambiare una rotella o semplicemente di levare via la polvere dagli ingranaggi è questo il suo vero compenso e non le mille lire che riceverà per la riparazione.
È la passione per il suo lavoro a riempirgli la vita (l’orrendo termine professionalità non andava ancora di moda). È la soddisfazione che coglie in chi si è rivolto a lui per risolvere un piccolo grande problema ad appagarlo. È la consapevolezza di saperci davvero fare con quegli arnesi a legittimarlo. E, sì, deve pur vivere e per questo chiederà un prezzo, ma non sarà quello a motivarlo.
Per quanto in apparenza insignificante, l’intervento è svolto a regola d’arte. La stessa composta competenza il maestro orologiaio si sarebbe aspettato nel chirurgo che apre il corpo umano e lo richiude dopo aver rimosso il problema. O nell’idraulico, nello stagnino, nel meccanico e in chiunque affidiamo la soluzione di un problema al quale non sappiamo o non possiamo provvedere da soli.
Abbiamo fiducia in chi ci rivolgiamo perché presupponiamo si sia preparato a fondo nel portare a termine il compito che accetta di svolgere. Non possiamo nemmeno lontanamente immaginare che sia impreparato a farlo o che al dunque si mostri svogliato e distratto. Non ci rivolgeremmo certo a lui nemmeno per le minime cose, figuriamoci per quelle più importanti e delicate.
Tutto questo fino a molti anni fa. Certo, imbonitori e fannulloni, imbroglioni e pasticcioni, ci sono sempre stati. Ma rappresentavano l’eccezione in un sistema nel quale ci si poteva fidare del professore come dell’autodidatta che aveva assorbito i segreti dell’arte e sapeva metterli a frutto. Le cose si facevano per bene. E per questa nostra abilità di italiani eravamo conosciuti e apprezzati nel mondo.
Dighe, canali, autostrade… Dappertutto il genio italico ha lasciato un segno indelebile e ancor oggi il Made in Italy, riferito ad altro genere di manufatti, si avvantaggia di quella fama. Non manca chi si adopera per rivitalizzarla – e infatti le esportazioni sono tutt’ora il motore della nostra economia -, ma il rapporto si è invertito fino al punto che l’eccezione è diventata la regola.
Basta osservare uno qualsiasi dei nostri cantieri cittadini per rendercene conto. Mesi, anni, decenni, per allargare una corsia, costruire un marciapiede, fissare qualche luce, passare tubi nel sottosuolo, rifare il manto d’asfalto. Crateri aperti e quasi mai presidiati. Animati quando va bene da pochi uomini dai gesti rallentati. E tutti noi rassegnati ad attese senza fine.
E quando il termine arriva, quando d’incanto si levano le transenne con i cordoni ormai stracciati e stinti, quando si potrebbe prendere beneficio dal sacrificio reso ci accorgiamo che la superficie è irregolare, che qui e là cominciano a spuntare strane crepe, che il cemento si presenta a chiazze come in un raffazzonato rammendo che infatti non tiene e richiede presto nuovi interventi.
Non sono le risorse a mancare (ne arriveranno a pioggia dall’Europa come sappiamo), non sono le tecnologie a fare difetto, non è la manodopera a scarseggiare. Quello che si è perso, che stentiamo sempre più a ritrovare nelle tante manifestazioni dell’uomo, quello che fa la differenza tra un comportamento dignitoso e uno di cui vergognarsi (i fatti di cronaca ci aiutano a dire) è l’amor proprio.