Chi costruirà che cosa? E, soprattutto, come? È la domanda che si è fatto il direttore del Foglio Claudio Cerasa citando alcuni dei mille indizi che ci fanno dubitare sull’esito del “piano Marshall” da 200 miliardi e più nell’ambito del Recovery Plan. “Per fare Expo – scrive – venne scelto un commissario, per fare il Mose è stato scelto un commissario, per costruire il ponte Morandi è stato scelto un commissario. Ma un conto è creare le condizioni politiche per commissariare la gestione di una grande opera, un altro è creare le condizioni per sbarazzarsi, nei prossimi sette anni, dei colli di bottiglia che tengono da decenni in ostaggio l’Italia. I buoni manager possono servire, i buoni ministri possono aiutare, ma la vera sfida per l’Italia di oggi è una sfida che la politica tende a non affrontare e che però costituisce la vera partita dell’Italia futura: avere il coraggio di cambiare le regole sbarazzandosi nel giro di pochi mesi di tutte le forme di populismo burocratico che hanno permesso all’Italia di trasformare l’immobilismo nell’unica forma di legalità consentita”.
Una sfida da far tremare i polsi, spiegano Roberto Perotti e Tito Boeri. “Il primo problema – dicono – è che si tratta di cifre mai viste prima. Entro il 2023 l’Italia dovrà stanziare 135 miliardi (il 70 percento del totale, 45 miliardi all’anno in media) e farsi approvare i progetti per il restante 30 percento”. Inoltre, al contrario di un trasferimento, la spesa per beni e servizi richiede un progetto specifico. Mentre tutti sono in grado di ricevere un trasferimento dallo Stato (ci mancherebbe…), non tutte le amministrazioni sono in grado di spendere bene e in così poco tempo le enormi risorse che riceveranno.
“Si prenda la digitalizzazione. L’Ue ci impone di stanziare 50 miliardi in tre anni su questo tema, ma nessuno mai fino a oggi in Italia aveva pensato a spendere una cifra così enorme in così poco tempo. Un conto è immaginare un’ingenua utopia di un mondo in cui tutti hanno accesso a tutto dal loro computer o cellulare, un altro è inventarsi in pochi mesi migliaia di progetti specifici che sommino a 50 miliardi. Quante delle nostre realtà locali hanno le competenze e la capacità progettuale per farlo, e quindi quanti di questi progetti saranno davvero necessari e utili?”.
Per aiutarci a rispondere può tornar utile rifarci alle parole di Ignazio Visco, che ha appena dedicato una lucida analisi alla nostra difficoltà a riprendere il cammino della crescita interrotto una ventina d’anni fa. “È necessario riflettere – scrive il Governatore della Banca d’Italia – sulle determinanti della produttività delle imprese, in particolare l’accelerazione del progresso tecnologico, con lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, e il processo di integrazione internazionale dei mercati. A tali cambiamenti l’Italia non ha saputo far fronte, accumulando gravi ritardi, in particolare nell’ambito della ricerca e dell’innovazione, della digitalizzazione e in ultima istanza nella quantità e nella qualità del capitale umano”.
Questo è probabilmente l’handicap più doloroso ma anche più difficile da rimuovere per un Paese che, privo di materie prime, da sempre affida le sue speranze di crescita alle sue abilità manuali e intellettuali. “Una delle ragioni dei divari appena descritti è costituita dal modesto livello di investimenti in istruzione, in particolare in quella terziaria, dove la spesa complessiva è di oltre un terzo inferiore rispetto alla media Ocse – accusa ancora Visco -. È un risultato deludente per un Paese che, per recuperare i ritardi rispetto alle principali economie avanzate, dovrebbe puntare invece a superare la media. Comprendendo anche i finanziamenti che le università ricevono per la ricerca, nel 2017 la spesa in istruzione terziaria si attestava ad appena lo 0,9% del Pil, una delle percentuali più basse tra i Paesi avanzati”.
Basta così. Ho voluto approfittare dello spazio per rilanciare alcuni concetti che la cronaca politica non tratta. O comunque trascura. A nostro danno.