Lo Stato nazionale non ha futuro, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene. Con queste parole, Angela Merkel martedì scorso ha commentato l’accordo raggiunto in Europa sul Recovery Fund. È ancora da chiarire se saranno 500 o 1.000 miliardi – bisognerà aspettare il 27 maggio per capire quale sarà effettivamente il volume finanziario del fondo -, ma è alquanto evidente, anche a chi fa finta di niente, che si tratta di una svolta e di un’intesa fondamentale per il futuro dell’Unione europea: mai la Commissione si è impegnata in un’emissione di questa scala. Tanto che, appunto, Merkel si spinge a dire che è finita l’epoca dello Stato nazione.
Sarà certamente la storia a dirci se la cancelliera ha ragione. Tuttavia, oggi possiamo da una parte continuare a sperare nella prosperità del progetto europeo, dall’altra fare qualche considerazione utile anche a comprendere le finalità di questo ingente stanziamento di risorse.
Il Recovery Fund si baserà sull’emissione di titoli comuni anche in ragioni di obbiettivi condivisi che gli Stati membri si stanno dando. La globalizzazione sta cambiando verso, a dire il vero lo ha già cambiato negli ultimi tre anni in ragione del rallentamento del commercio mondiale e della sempre più crescente regionalizzazione dell’economia. Con i mercati americano e cinese che sanno essere rigogliosi per le rispettive produzioni, anche quello europeo deve trovare la giusta coesione, cosa che passa da un lato per un crescente protezionismo a favore dei prodotti europei – che risponda ai dazi americani e cinesi – e dall’altra a un rafforzamento della propria capacità produttiva, anche in termini di innovazione.
La necessità di innovare l’industria – in Germania questa esigenza è molto forte – è ciò che ha convinto Angela Merkel che è il momento di investire e che, oggi, con le sole politiche di bilancio si rischia di morire sotto i colpi dell’economia cinese e americana. Investire, naturalmente, significa anche creare opportunità per il lavoro in un momento di forte contrazione che si aggiunge a un rallentamento generale in cui soffre, in particolare, l’occupazione. E se a soffrire è l’occupazione, soffrono a loro volta mercato e consumo. Nell’ottica di rivitalizzare domanda e mercato interno – visto che l’export cala e probabilmente calerà sempre più – oggi non resta che questa strada.
Per quanto riguarda il nostro Paese, da una parte beneficeremo del fondo in ragione di ciò che ci spetta, nella speranza di essere capaci di investire le risorse nel modo giusto: l’Italia ha infatti urgente bisogno di darsi una prospettiva di crescita reale, che sappia rilanciare un Paese depresso. Dall’altra, lo stesso rilancio dell’industria tedesca è fattore molto importante per il nostro Paese che non solo resta la seconda potenza manifatturiera d’Europa, ma anche molto integrata proprio con la grande piattaforma teutonica.
Il Recovery Fund è, nelle intenzioni, una risposta di investimenti e di lavoro. Finalmente in Europa si è compreso che non vi è futuro se non mettendo al centro dell’agenda politica l’economia reale, ovvero lavoro e industria (intesa anche in senso etimologico, dal latino: attività, operosità). Ecco perché può essere la risposta ai nazionalismi/sovranismi di vario genere che, come si è visto, nulla hanno avuto in comune in questi anni se non le politiche anti-migrazioniste. Olanda, Svezia, Danimarca e Austria sono dichiaratamente contro l’intesa, segno che la stagione del rigorismo si è chiusa. Il progetto europeo può proseguire anche senza di loro, nella speranza che al rigorismo faccia seguito una stagione di vera innovazione sociale.
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