Proviamo a prendere la temperatura all’economia globale. La situazione risulta particolarmente complessa, visti i numeri drammatici sull’occupazione e la caduta drammatica della crescita. Ma forse il vero nodo riguarda lo shock che ha frantumato buona parte della coesione internazionale, aggravando divisioni profonde e in parte impensabili: invece di rilanciare la cooperazione nella ricerca scientifica, la ricerca del vaccino anti-coronavirus è diventata l’occasione per una nuova sfida tra le superpotenze per assicurarsi “il controllo dell’arma”. Intanto le dimissioni del segretario della Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, e la minaccia Usa di ritirarsi dall’Organizzazione mondiale della sanità segnano fratture profonde sul fronte della cooperazione internazionale proprio quando sarebbe necessario uno sforzo comune.
In questa cornice si inserisce l’affondo della Cina. Il Congresso del Popolo ha imposto alle autorità di Hong Kong una legge sulla sicurezza pubblica che permetterà di perseguire penalmente i reati di sovversione e sedizione. Donald Trump ha già anticipato che la risposta degli Stati Uniti sarà “molto forte”. Le nuove leggi cinesi segneranno la fine dell’ex colonia britannica come polo finanziario internazionale, mentre i colossi cinesi, vedi Baidu, già annunciano la ritirata da Wall Street che, a sua volta, approva regolamenti fatti apposta per espellere le matricole cinesi dalla piazza finanziaria più importante.
È solo un esempio, pur molto significativo, della fine della globalizzazione, un fenomeno che accelera a vista d’occhio e che, tra l’altro, minaccia da vicino l’esistenza stessa dei principi fondativi dell’Unione europea che, oltretutto, tra poco di un mese dovrà fare i conti con la Brexit, che sembra destinata a sfociare in un disaccordo totale. Sarebbe un disastro, per il Regno Unito più che per l’Ue, ma Boris Johnson guarda più ai benefici politici a breve che non ai rischi a lungo. Così come fa Trump, consapevole che in chiave elettorale lo scontro con Pechino può compensare i guasti provocati dalla crisi economia posta pandemia.
Il tutto mentre governi e banche centrali cercano di contrastare la depressione (ormai non si può parlare di recessione) con iniezioni di debiti a tassi sempre più ridotti: gli Usa hanno lanciato il primo ventennale dal 1996 e ne seguiranno a breve altri. La Cina emetterà quest’anno, per la prima volta, obbligazioni per un valore di 1.000 miliardi di dollari.
In questo quadro si inserisce il confronto di domani tra i Paesi dell’Eurozona sulle strategie dell’Unione. In sintesi si tratterà di scegliere tra gli aiuti garantiti da capitali messi a disposizione dall’Unione senza obbligo di restituzione da parte dei Paesi che attingeranno al fondo comune (garantito dai Paesi stessi) ovvero sui prestiti a chi ne fa richiesta accentando precise condizioni come chiedono i “Quattro frugali” (Austria, Danimarca, Olanda e Svezia). È un passaggio per la costruzione europea che ricorda da vicino la situazione in cui, più di due secoli fa, si trovarono le 13 ex colonie americane di Sua Maestà dopo aver conquistato l’indipendenza.
Alcuni Stati, come il Massachusetts o la South Carolina, erano indebitati fino al collo, come l’Italia o la Grecia di oggi. Altri, come il Maryland o la Virginia, godevano di grande credibilità finanziaria (meno però di Germania e Olanda oggi). Una situazione abbastanza simile a quella dell’Europa colpita dall’epidemia così come sono abbastanza simili (e ragionevoli) le obiezioni di chi, come Thomas Jefferson, fino all’ultimo si batté per evitare che soldi della Virginia finissero nel calderone del bilancio federale. E per tutta la sua esistenza Jefferson cercò di introdurre correttivi alla Costituzione per impedire che le “cicale” potessero attingere ai fondi degli Stati più virtuosi.
Fu un dibattito aspro, traversato da continue minacce di rottura (il Vermont fu a un passo dal “vendersi” al Canada). E per vincere le resistenze i federalisti accettarono che la nuova capitale sorgesse nel cuore della Virginia. Ma alla fine nacquero gli Stati Uniti d’America, uno Stato federale dotato di un potere che oggi l’Ue non ha: l’autorità fiscale.