La trattativa europea per gli aiuti agli Stati più colpiti dal Covid-19 e dalle sue conseguenze sta entrando nel vivo. Il 27 maggio la Commissione europea presenterà le sue proposte sulla componente che dovrebbe essere la più importante: il Recovery Fund. Da allora, il negoziato sarà serrato sino al Consiglio europeo del 18-19 giugno, riunione che forse non sarà definitiva e richiederà almeno un nuovo incontro dei Capi di Stato e di Governo dei 27 prima di finalizzare gli aiuti.
L’Italia ha una posizione relativamente debole: pur essendo uno dei fondatori dell’Unione europea, ha giocato un ruolo secondario e subordinato rispetto a Francia e Germania che, tra l’altro, hanno presentato una proposta comune proprio sul Recovery Fund , elemento su cui punta il nostro Paese. Al fine di giocare una parte attiva nella trattativa, Roma deve avere chiaro perché non è presa adeguatamente in considerazione e quali sono gli assi, o l’asso, che ha nella manica e che se ben giocati potrebbero cambiare gli esiti del negoziato.
La posizione secondaria e subordinata dell’Italia viene da lontano. La si può far risalire al “compromesso di Lussemburgo” del 29 gennaio 1966 con cui venne risolta la crisi aperta il 30 giugno 1965 quando la Francia, in disaccordo su due proposte chiave della Commissione (in materia di voto a maggioranza qualificata e di Politica agricola comune) cessò di partecipare alle riunioni del Consiglio europeo (declinato nelle sue varie forme) e bloccò di fatto il meccanismo decisionale. Il “compromesso” ebbe come mediatori gli Stati del Benelux e sanzionò la centralità dell’intesa tra Francia e Germania. Allora, oltre mezzo secolo fa, anche in materia di Politica agricola comune, l’Italia dovette accontentarsi delle briciole.
Temendo di restare sullo strapuntino dell’auto europea, l’Italia divenne prima il principale fautore dell’ingresso della Gran Bretagna in quella che sarebbe divenuta l’Ue e di numerosi tentativi (a volte anche goffi, mai andati a buon fine) per contrapporre un asse Roma-Londra a quello tra Francia e Germania. Occorre dire che l’Italia riacquistò peso negli anni Ottanta del secolo scorso, al segno del decisionismo del Governo Craxi. La strada diventò impervia quando dal 1990 iniziò il percorso verso la moneta unica. Da un lato, l’orgoglio nazionale richiedeva che entrassimo nel gruppo di testa dell’euro. Da un altro, per raggiungere questo obiettivo, prendemmo impegni (il “compromesso Carli”) ben sapendo che non li avemmo mantenuti, soprattutto quello di portare il nostro debito pubblico (105,5% del Pil) al 60% del Pil entro un tempo ragionevole. In epoca più recente, restammo alla finestra di fronte a proposte volte a costruire una politica industriale fondata su “campioni europei” (il Rapport Beffa del 2005 e il Rapport Gallois del 2012); tali proposte, prontamente accettate da Berlino, hanno accentuato la diarchia franco-tedesca.
Sino al 2007 il leggero avanzo primario dei conti pubblici faceva sperare in un loro lento e graduale riassetto, che è stato però travolto dalla doppia recessione del 2008-2009 e del 2011-2012. Successivamente, le deroghe ottenute in nome della “flessibilità” sono state utilizzate non per spese di sviluppo, ma assistenziali tali da destare perplessità: la stampa europea e lo stesso New York Times International hanno dato molto rilievo a reddito di cittadinanza finito a cosche mafiose. In breve, gli elettori di numerosi Stati dell’Ue si sono, a torto o a ragione, convinti che alla solidarietà da loro dimostrata non sia corrisposta una pari prova di responsabilità.
Quindi, l’Italia è debole, anche se i portavoce di palazzo Chigi cercano ogni occasione possibile per sottolineare i buoni rapporti personali tra i nostri governanti e i leader dei maggiori Stati europei. Tuttavia, l’Italia ha un carta da utilizzare con grande giudizio: il pericolo che la crisi economica provocata dal Covid-19 metta a rischio l’esistenza stessa dell’euro partendo da una tempesta finanziaria nel Bel Paese. Ciò danneggerebbe tutti, ma colpirebbe, in particolar modo, la Repubblica Federale Tedesca, dato che per rilanciare l’economia Berlino ha varato un piano di mille miliardi di euro e ottenuto dalla Commissione europea ampie deroghe alle regole sugli aiuti di Stato (al fine di entrare, temporaneamente, nel capitale di aziende in crisi). Se l’unione monetaria si sfalda, la Repubblica Federale avrebbe una forte rivalutazione che spiazzerebbe la sua industria.
Come scritto più volte, lo shock da Covid-19 è, al tempo stesso, simmetrico (in quanto provocato da una determinante esterna che colpisce tutta l’eurozona) e asimmetrico dato che colpisce alcuni Stati (già fragili) molto più di altri. La teoria dell’area valutaria ottimale dimostra che la domanda di determinati beni prodotti in un Paese (paese A) potrebbe aumentare, mentre potrebbe diminuire la domanda di beni prodotti in un altro Paese (paese B). In assenza di una unione monetaria, la aumentata domanda dei beni del “paese A” dovrebbe far cambiare il tasso di cambio, portando al deprezzamento della moneta del “paese B” e all’apprezzamento della moneta del “paese A”, evitando l’aumento della disoccupazione nel “paese B” (o il deterioramento della bilancia commerciale), che sarebbe altrimenti danneggiato dalla diminuita domanda dei beni prodotti sul suo territorio.
Chiaramente, questo aggiustamento non può avere luogo in presenza di cambi fissi o di un’unione monetaria. L’aggiustamento potrebbe essere ottenuto tramite una variazione dei salari e dei prezzi, qualora questi fossero flessibili. In assenza di questa flessibilità, l’unica soluzione per evitare le conseguenze dello shock sarebbe lo spostamento dei fattori produttivi e data la difficoltà di spostare il fattore lavoro da un’area dell’eurozona all’altra (anche per ostacoli linguistici, abitativi, ecc.) si dovrebbe trasferire capitale per spese di sviluppo ben allestite e ben valutate.
Per quel che riguarda le variazioni di prezzi e salari, poi, ipotizzarle come possibili non è sufficiente per considerarle un rimedio. Una riduzione dei salari reali non solo scatenerebbe la rabbia sociale e darebbe la stura a nuove polemiche anti-Ue, ma comporterebbe una seria deflazione e un’ulteriore caduta dell’economia proprio quando l’obiettivo è quello di rivitalizzarla.
Per il proseguimento dell’unione monetaria sono essenziali due “medicine”: a) renderla nell’immediato e per un periodo limitato quella “transfer union” a cui tanto si oppongono Austria, Danimarca, Finlandia, Olanda e Svezia e nei cui confronti è gelido l’elettorato tedesco e b) un metodo per risolvere il nodo del debito sovrano incrementale dovuto alla pandemia. Per b) ci sono proposte, ma per a) è unicamente problema di volontà politica. Ne sono convinti anche economisti del Nord Europa, come indica ad esempio il saggio recente di Matthias Weber Eurobonds (or Coronabonds) Would not Be Costly for Northern Euro Area Countries apparso sulla London School of Economics Business Review. Per il debito merita attenzione la proposta formulata da quattro economisti italiani – Massimo Amato (Bocconi), Everardo Belloni (Politecnico di Milano), Paolo Falbo (Università di Brescia), Lucio Gobbi (Università di Trento).
Naturalmente, la carta del pericolo della fine dell’euro va utilizzata, per essere credibile, con l’impegno di un riassetto strutturale a medio termine, come ci chiedono gran parte dei nostri partner Ue. Ciò comporta quello sforzo di programmazione che sinora il Governo Conte, nelle due dimensioni che ha assunto, non è stato in grado di fare. E vuol dire “condizionalità” per i finanziamenti.