La settimana che si sta concludendo è cominciato con l’accordo, che è stato definito storico, relativo al Recovery fund raggiunto dopo cinque giorni di Consiglio europeo contraddistinti da scontri tra i Paesi frugali e mediterranei, in particolare il nostro. Un accordo che alla fine sembra aver soddisfatto tutti, ma che non pare però sufficiente all’Italia per superare i suoi problemi, almeno stando alle dichiarazioni di Nicola Zingaretti, Paolo Gentiloni e Roberto Gualtieri, tutti esponenti del Partito democratico, secondo cui occorre ricorrere al Mes. Abbiamo chiesto un commento a Massimo D’Antoni,  professore di Scienza delle finanze nell’Università di Siena.



Tutti i Paesi si dicono soddisfatti dopo l’accordo raggiunto al Consiglio europeo. È possibile che possa essere davvero così, considerando i diversi interessi degli Stati membri?

Trattandosi di un compromesso, tutti hanno ottenuto qualcosa ed è naturale che ognuno presenti al proprio elettorato le luci più che le ombre. Colpisce però in questo caso, tra coloro che non sono soddisfatti, il giudizio severo che proviene dal Parlamento europeo, contenuto in una mozione trasversale firmata da popolari, socialisti, verdi e sinistra. Una mozione che evidenzia alcuni punti deboli dell’accordo raggiunto.



Quali?

Si rimprovera il fatto che l’accordo rilanci la logica intergovernativa a scapito di quella comunitaria. Inoltre, si critica la scelta di compensare il varo del Recovery fund con un taglio drastico, in alcuni casi addirittura una cancellazione, di programmi di spesa europei già in essere. Proprio questo taglio, insieme con una revisione degli “sconti” spettanti ai Paesi cosiddetti frugali, rende complessa anche una valutazione precisa dei vantaggi netti che avremo dall’accordo.

Ecco, veniamo più allo specifico dell’Italia. Condivide l’entusiasmo con cui dalla maggioranza è stato accolto l’accordo?



La maggioranza aveva investito molto sul piano politico in questa vicenda. Anche in questo caso si tendono a sottolineare gli aspetti positivi mettendo in secondo piano le questioni più controverse.

Si sta parlando molto delle condizionalità sulle risorse da spendere, sui tempi in cui queste saranno disponibili e del cosiddetto “super freno di emergenza”. Cosa può dirci in merito?

Cominciamo dall’ultimo punto. Condivido l’opinione di chi pensa che il freno alla fine non sia un grosso problema, visto che i singoli Paesi dissenzienti potranno al massimo ritardare di tre mesi i finanziamenti. La decisione spetta comunque al Consiglio europeo. Più delicate le questioni dei tempi e delle condizionalità.

Perché? Cosa possiamo dire dei tempi?

Una prima questione è la disponibilità dei fondi, si pensa non prima del 2021. Un’altra questione importante, questa volta positiva, è il divario temporale tra entrate e uscite. Ricordo che i sussidi “a fondo perduto” dovranno comunque essere finanziati da tutti gli Stati membri e dunque in proporzione anche da noi. Ma è importante il fatto che i sussidi siano finanziati dall’Ue con l’emissione di debito e siano resi disponibili in un orizzonte temporale abbastanza breve, mentre i contributi degli Stati, che serviranno per ripagare tale debito, saranno dilazionati nel tempo. Secondo i primi calcoli, per l’Italia dovrebbero esserci circa 80 miliardi di sussidi, a fronte di 50 miliardi di contributi. Il netto è dunque di circa 30 miliardi, non tantissimo, ma il fatto che ci sia uno sfasamento temporale tra gli 80 in entrata e i 50 in uscita è un aspetto importante, da non minimizzare.

Quindi il suo giudizio è positivo?

Ricordo che si parla di un deficit per quest’anno intorno al 10% del Pil, 80 miliardi su tre anni, cioè circa 27 miliardi all’anno, sono poco più dell’1,5% del Pil. Meglio di niente, ma poco rispetto a quello che servirebbe. Trovo positivo anche che l’Ue decida di emettere un proprio debito, anche se è scritto e ripetuto che questa soluzione è da intendersi come una tantum. Qui però finiscono gli aspetti positivi.

Quale le sembra il punto più critico, con riguardo all’Italia, del Recovery fund?

Come ho ripetuto più volte in queste settimane, è cruciale capire come questa iniziativa si coordinerà con la riattivazione del Patto di stabilità, che potrebbe avvenire già dal 2021. Per noi, con un rapporto debito/Pil che secondo le previsioni arriverebbe intorno al 160%, l’applicazione della “regola del debito” avrebbe effetti pesantissimi. Ci costringerebbe a politiche di austerità rispetto alle quali il Recovery fund ci farebbe il solletico. Vorrei dunque capire diverse cose, di cui poco si parla: le spese previste dal Recovery fund saranno soggette a tali vincoli? Il rispetto rigoroso del Patto di stabilità sarà condizione per avere accesso al programma?

Insomma, le condizionalità…

Esatto. Si è detto che il rispetto delle Raccomandazioni annuali sarà condizione per accesso al Recovery fund. Nel nostro caso, tali Raccomandazioni prevedevano fino all’anno scorso una riduzione nominale della spesa pubblica. Quest’anno per via del Covid il tono è cambiato, ma prevedo che certe indicazioni torneranno presto, con tutta la loro stringenza. Il Recovery rischia di essere il nuovo strumento per rendere vincolanti tali regole. Un po’ più carota che bastone, ma pur sempre uno strumento di disciplina. Inoltre, le Raccomandazioni vanno nel dettaglio: pensioni, scuola, ecc. Se questi saranno gli unici spazi di spesa per il Governo italiano, ha ragione chi teme che tutte le decisioni strategiche per il Paese non saranno prese a Roma, ma a Bruxelles.

Dopo il varo del Recovery fund, e considerando l’intenzione del Governo di aumentare il deficit di altri 25 miliardi di euro, il ricorso Mes non è più da prendere in considerazione, come invece parte della maggioranza continua a fare?

Come ho già detto in una precedente intervista, per alcune forze politiche l’adesione al Mes più che una necessità è un obiettivo, un modo per formalizzare e rendere quanto più possibile irreversibile l’adesione dell’Italia al percorso di austerità che è iscritto nelle regole europee. È il famoso vincolo esterno, che qualcuno auspica apertamente, ma che molti economisti ritengono incompatibile con politiche di rilancio del Paese, nonché con l’esercizio della democrazia.

(Lorenzo Torrisi)