La proposta di Recovery fund avanzata dalla Commissione europea a fine maggio rappresenta, a mio avviso, un punto di svolta fondamentale, o meglio, può rappresentarlo, non essendo indifferente il modo di attuazione alla bontà dell’idea. Buone, o anche ottime idee, tradotte malamente in fatti, rischiano di aumentare il danno, o la confusione, che mi sembra ormai elevata.



Innanzitutto, va rilevata la quantità di risorse pianificate, davvero ingente: 750 miliardi di euro, che si aggiungeranno ai 1.100 miliardi di finanziamenti previsti dal bilancio europeo 2021-2027. Si tratta, quindi, di una forza economica imponente, a cui, peraltro, si affiancherà la politica monetaria non convenzionale della Bce – ulteriormente rafforzata proprio in questi giorni – che svolge anche il ruolo fondamentale di rete protettiva nei confronti dei debiti sovrani nazionali.



Per realizzare questo ambizioso progetto, l’Unione europea emetterà propri titoli, finanziandosi sui mercati, a lungo termine con scadenze varie, fino a 30 anni, come i nostri Btp. Vista la solidità dell’emittente, il tasso di interesse sarà molto basso. Tra i finanziatori ci saranno senz’altro soggetti appartenenti ai Paesi membri, così come al resto del mondo, cosicché, sotto certi aspetti e in modo un po’ approssimativo, si può parlare, almeno parzialmente, di auto-finanziamento. Ci potrà poi essere il solito rischio rappresentato da investitori altamente speculativi, alla ricerca di elitarie redditività, che potranno sfruttare gli spread tra debiti nazionali e quelli Ue, ma credo che con una buona regolamentazione, oltre all’azione della Bce, si riesca a contenere il fenomeno entro limiti fisiologici.



Come alcuni hanno acutamente notato, un’importante novità consiste nel fatto che la restituzione delle somme raccolte dall’Unione verrebbe garantita non soltanto attraverso contributi nazionali, ma anche attraverso maggiori risorse proprie che andrebbero a rafforzare il bilancio Ue, derivanti, ad esempio, da imposte comunitarie. Sarebbe, cioè, un ulteriore passo verso una sovranità economica e fiscale, fatta non soltanto di regole di bilancio vincolati per gli Stati membri, che contrappongono in modo sempre più accanito “formiche” del Nord a “cicale” del Sud, ma di una comunanza di risorse da destinare in varia misura e secondo diversi scopi: l’evoluzione dell’Europa verso un’organizzazione più “federale”, insomma, deciderà della sopravvivenza stessa dell’Europa, o, se si preferisce, del tipo di Unione davvero necessaria per il bene dei popoli che storicamente la compongono.

Naturalmente siamo soltanto all’inizio e il piano lanciato dalla Commissione incontrerà non poche resistenze da parte dei Paesi cosiddetti “frugali”, con l’Olanda in testa, che parrebbero acconsentire al massimo a prestiti di durata biennale, assoggettati a condizionalità e a meccanismi di rigido controllo. Al di là dell’esito del dibattito, con ogni probabilità lungo e difficile, mi preme sottolineare due elementi, che considero fondamentali.

È stato ribadito dai Paesi “frugali” un “no” tassativo ed assoluto a contributi erogati, per così dire, a fondo perduto, dovendo trattarsi esclusivamente di prestiti. Soldi dati senza ritorno finanziario sembrano, appunto, elemosinati, in definitiva buttati. Tralasciando le considerazioni personali sul valore dell’elemosina, che, lungo i secoli, ha salvato molte anime (per chi crede) e molti corpi, attraverso ospedali e strutture di ospitalità che ne sono nate (anche per chi non crede), finanziare un progetto giudicato meritevole è tutt’altro che privo di valore. La nostra società civile è ricca di fondazioni che sostengono progetti sociali, educativi, ambientali e formano un pilastro insostituibile della nostra esistenza. Pensare che il valore possa essere legato solamente alla logica dei tassi di interesse è una visione semplicemente miope, anche sul piano economico, nel medio/lungo termine. Perché non si può fare altrettanto per rilanciare settori chiave, come il turismo e la cultura? In questo periodo, infatti, risulta assai difficile contrarre prestiti, sia pure a costi ridotti, con il rischio di trovarsi indebitati in un contesto di incertezza dei tempi di ripresa economica, dovuti all’incognita sui contagi e ad una sfiduciata stanchezza.

Un secondo elemento decisivo, io credo, consiste nella capacità decisionale e organizzativa, per non disperdere le risorse a disposizione, visto che l’Italia, tra i Paesi più colpiti, potrebbe esserne la principale beneficiaria. ”In Italia abbiamo un drammatico problema di classe dirigente perché abbiamo distrutto la politica e per far fronte alle emergenze, come questa del coronavirus, serve una visione. Nella prima Repubblica c’era una visione del futuro”, così – secondo fonti di stampa – ha detto Fabrizio Palenzona (a lungo Vice Presidente di Unicredit), intervenendo a un recente convegno organizzato da PwC, dall’associazione “Scuola di Politiche” e dalla fondazione “Costruiamo il futuro” (webinar “Italia 2021 – È già domani”). “Abbiamo indebolito la nostra classe dirigente, ma nella prima Repubblica crescevamo il doppio di oggi”, ha proseguito. “L’Ue ci darà il Recovery Fund se ci sarà un progetto per l’Italia e il progetto ci sarà se ci sarà una classe dirigente“. La conclusione farà la differenza.

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