Siamo tutti meridionali. Chi in forma autentica, come gli abitanti del Sud, e chi diversamente, come i connazionali del Nord stanno sperimentando. E da meridionali dell’Italia superiore e inferiore stiamo tutti sulla stessa barca. Quindi, meglio remare all’unisono piuttosto che cercare di fare i furbi gli uni sugli altri.



La conferma di questa circostanza l’ha data per ultima la Svimez, meritoria associazione che ancora studia i divari, che nell’ultimo bollettino diramato ha detto in sostanza che se il fermo lavorativo dovuto alla pandemia ha colpito di più il Nord, la ripresa sarà più lenta e difficile nel Sud. E, in effetti, il dato è abbastanza leggibile. Dove più numerose e ricche sono le fabbriche, più evidentemente ha inciso il blocco delle loro attività; dove più rarefatta è la presenza dell’impresa, meno ha potuto pesare la loro chiusura. Tutto questo, almeno, nel campo dell’economia osservabile (non nascosta). Allo stesso modo è facile intuire come la reazione sarà più pronta e piena dove maggiore è la forza produttiva (che possiamo paragonare alla dotazione muscolare di un territorio) e più fiacca dove invece il sistema delle aziende si mostra debole e quindi senza grandi energie da spendere.



Tutto questo ci porta alla considerazione iniziale: se il Sud piange, il Nord non ride. E sarebbe davvero imprudente continuare nel tira e molla su prerogative e risorse che ha impoverito il Mezzogiorno senza fare del Settentrione quell’area industriale forte e imbattibile come avrebbe potuto essere.

Che le regioni meridionali abbiano sprecato molte risorse è cosa risaputa e documentata. Che le regioni settentrionali abbiano trattenuto negli anni più soldi del dovuto facendosi scudo con il criterio della spesa storica e peggiorando la situazione al Sud è diventato altrettanto evidente. Da entrambe le parti ci sono recriminazioni da svolgere e torti da raddrizzare. E, a larghe spanne, si può dire la contrapposizione economica e ideologica alla fine non ha fatto bene a nessuno perché la contrazione della capacità di acquisto del Sud ha inciso sulle vendite del Nord che sono diminuite.



Dunque, non sarà l’ennesimo duello rusticano tra i più o meno brillanti esponenti dei due schieramenti che risolverà la Questione che da meridionale e settentrionale diventa nazionale. Solo un’ottica unitaria potrà restituire al Paese la prospettiva che ne ha fatto la seconda manifattura d’Europa.

E allora anziché aprire vecchie ferite – molte non ancora perfettamente rimarginate – vale la pena di spargere unguento e tentare di sanarle del tutto e in via definitiva sperimentando un approccio diverso da quello che ha dimostrato di non funzionare. I tempi, definiti dalla pandemia, sono maturi.

Farà un buon servizio, anche alle prossime elezioni regionali, chi saprà trovare le ragioni della coesione e smetterà di giocare alle divisioni. A questo giro, il più impegnativo dal Dopoguerra, si vince o si perde tutti insieme. E di questo chi ha qualche responsabilità dovrebbe esserne particolarmente convinto.

Come si può altrimenti affrontare il vasto e potenzialmente deflagrante problema del migliore utilizzo possibile dei 200 miliardi e passa che l’Europa è disposta a trasferirci solo a fronte di progetti credibili e in grado di migliorare in modo strutturale e duraturo l’efficienza e l’efficacia del sistema Paese?

Da qui il ragionamento si sposta sui comportamenti e sull’attitudine ad assumere decisioni sensate. Su questo piano non siamo messi benissimo. Dobbiamo coltivare di più e meglio il nostro capitale umano se vogliamo che i propositi si trasformino in fatti. Alla fine tutto si riduce alla qualità delle persone.