Il Recovery Fund non deve “portare a alcuna mutualizzazione del debito”: firmato, i quattro paesi più rigoristi dell’Unione, Austria, Olanda, Danimarca e Svezia che, come riportato dell’Agi, hanno sottoscritto un “non paper” in cui tratteggiano la loro versione del fondo di ricostruzione. Nessuna condivisione del debito dunque, ma “prestiti a condizioni favorevoli a beneficio degli Stati membri in stato di necessità, limitando al contempo il rischio di tutti gli Stati membri”. Non solo. “Un forte impegno alle riforme e al quadro di regole fiscali è essenziale per promuovere la crescita potenziale” scrivono i quattro. Tradotto: prestiti in cambio di riforme. Una presa di posizione che – per ora – contrasta con l’ipotesi Merkel-Macron e complica il lavoro della Commissione in vista del prossimo 27 maggio, quando l’esecutivo Ue dovrebbe formalizzare la sua proposta.
“La proposta franco-tedesca prevede l’emissione di debito europeo e questa è senza dubbio una novità” dice Massimo D’Antoni, ordinario di scienza delle finanze nell’Università di Siena, ma si tratterà sempre di debiti da ripagare.
Con l’economista abbiamo cercato di far luce su uno strumento che ancora non c’è, partendo dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Per Conte l’accordo Francia-Germania sul Recovery Fund è “di portata storica” perché la Germania “accetta la logica del debito comune europeo”. Sarà veramente così?
Per la verità ancora non è così chiaro. C’è una proposta franco-tedesca che prevede l’emissione di debito europeo e questa è senza dubbio una novità. Tuttavia sono presenti molti elementi che dovrebbero raffreddare gli entusiasmi, a cominciare dall’insistenza sul carattere occasionale e temporaneo del fondo, con la precisazione che andranno specificati tempi certi di restituzione.
Un dettaglio che dovrebbe indurci a maggior cautela.
Sì. A differenza dei debiti pubblici nazionali, la cui restituzione è nei fatti rinviata sine die, in questo caso si chiederà agli Stati membri di riassorbire i titoli emessi dalla Ue con i propri contributi al bilancio comunitario; saremo sempre noi a fornire quelle risorse, sebbene su un orizzonte pluriennale. Inoltre, già è arrivato l’altolà di un gruppo di Paesi del Nord Europa: Paesi Bassi, Danimarca, Svezia di trasferimenti tra Stati non vogliono proprio sentir parlare.
Vuole azzardare una previsione?
È prematuro, ma l’esperienza ci dice che, dovendo trovare un compromesso, il punto di caduta sarà qualcosa di meno ambizioso di quanto abbiamo letto.
Sempre Conte dice che ci saranno “contributi a fondo perduto fino a 500 mld”. Lo ritiene possibile?
Da quel che si capisce, almeno in parte i contributi sarebbero erogati agli Stati in base a un criterio legato all’impatto del virus e, possiamo presumere, alla capacità di utilizzare i fondi per le finalità indicate. Non sono fondi liberamente utilizzabili dagli Stati, avranno vincoli di destinazione precisi. Dunque, se è vero che non dovrebbe trattarsi di prestiti che i destinatari dovranno restituire bensì di contributi a fondo perduto, quel debito dovrà essere comunque ripagato, e a farlo dovranno essere gli Stati membri in misura proporzionale alla loro quota di partecipazione al bilancio Ue.
Sembra una situazione contraddittoria. Ci aiuti a capire…
Ciascuno Stato si troverà sia nella veste di destinatario delle risorse che, alla fine, in quella di finanziatore; a seconda di come varia la quota in un caso e nell’altro, potremo trovarci nella condizione di creditori o di debitori netti. Diciamo che il vantaggio c’è se e nella misura in cui otterremo più di quanto siamo chiamati a contribuire. Immagino che Conte lo stia dando per scontato.
Allora qual è la secondo lei vera portata della proposta franco-tedesca?
Ci sono elementi di novità interessanti, in primo luogo la possibilità di vendere sul mercato titoli di debito europei. Sarebbero a tutti gli effetti degli “eurobond”, che potranno finanziare nuovi programmi di spesa. Che abbiano effetti risolutivi sui nostri problemi di bilancio, sul peso del nostro debito pubblico, è però ahimè tutto da dimostrare.
Quindi si tratta di qualcosa di diverso dal Mes, a proposito del quale Conte spiega che “se vado in banca e chiedo 37 mld poi li devo restituire”.
Intanto aspettiamo di vedere quanto sarà effettivamente trasferimento e quanto prestito. Il problema del Mes è che l’assistenza finanziaria fornita agli Stati è, da trattato, sempre accompagnata da condizioni e da un meccanismo di sorveglianza sul rispetto dei parametri di bilancio. Nel caso della nuova linea Pandemic Crisis Support le condizioni riguardano la tipologia di spese (quelle dirette e indirette di prevenzione del virus) e sono state date rassicurazioni da parte della Commissione sul fatto che la sorveglianza sarà attuata in modo “soft”. Se questo ci autorizzi a parlare di un Mes senza condizioni è questione che su questa testata avete trattato ampiamente a autorevolmente, penso agli interventi di Alessandro Mangia.
Infatti le condizioni restano.
Diciamo che la condizionalità è un tratto ineliminabile dei meccanismi di solidarietà europea: ti aiuto ma devi fare certe cose e non devi farne altre. Non credo che il Recovery Fund si possa sottrarre a questa logica.
A proposito: ammesso che il Mes sia una soluzione archiviata, cosa ci insegnano questi mesi di confronto pubblico sul Meccanismo di stabilità?
Sono tra quelli che ritiene il Mes uno strumento rischioso anche nella sua forma “alleggerita” e comunque alla fine poco utile, visto che il finanziamento sarebbe complessivamente esiguo e soggetto o vincoli di utilizzo che ne limitano molto la portata. Del resto, firmai già in autunno con altri economisti un appello contro la riforma del trattato del Mes, che ritenevamo uno strumento discutibile con il quale si aggira il problema fondamentale dell’unione monetaria, cioè il ruolo della Banca centrale europea.
Perché le condizionalità hanno un ruolo così importante?
Del dibattito di questi mesi mi resta la sensazione che molti dei sostenitori del Mes, lungi dal considerare le condizionalità un problema, le vedano come il vero obiettivo da raggiungere, in ossequio alla vecchia idea che gli italiani non sono in grado di governarsi in assenza di un vincolo esterno. Sul piano politico, una forma di assicurazione di fronte a esiti elettorali indesiderabili.
Ci sono soluzioni per sottrarci a “strumenti” che ci permetterebbero di finanziarci a debito?
Il finanziamento a debito non è una patologia, è il modo normale con cui gli Stati affrontano situazioni come quella che stiamo attraversando. Occorre limitare i danni di un evento traumatico, lo si fa indebitandosi e scommettendo sul fatto che questo aiuterà la crescita e quindi ci consentirà di sostenere il debito che abbiamo riducendone progressivamente il peso.
Eppure ci viene detto continuamente che il debito è un problema.
Il problema è quando l’essere indebitati porta a condizionamenti discutibili nelle scelte di politica economica, quando le priorità sono decise dai creditori andando ben oltre quanto necessario a garantire che lo Stato onori i propri impegni.
Abbiamo alleati nell’affrontare la questione del debito? Uno potrebbe essere la Francia. Sarebbe possibile coinvolgerla in un’iniziativa politica comune in Europa?
Ovviamente la Francia è un attore cruciale e in astratto potrebbe essere il nostro migliore alleato, ma quasi sempre la strategia dei cugini d’Oltralpe è stata quella di farci andare avanti al solo scopo di rafforzare la propria forza contrattuale con la Germania, che considera il proprio unico vero interlocutore con il quale alla fine stringere un accordo. Se va bene siamo per la Francia quello che l’Olanda è per la Germania, una sorta di spauracchio da agitare.
Prospettive?
Finché la dinamica negoziale resta questa, e non mi pare che stia cambiando, al massimo possiamo sperare che i nostri interessi coincidano almeno in parte con quelli francesi. Mi pare invece del tutto inverosimile che i francesi possano preferire un asse italo-francese a quello franco-tedesco.
Crisi economica post-pandemia e modello ordoliberista. Chi vince e chi perde?
L’Europa brilla ancora una volta per l’incapacità di azioni unitarie, che si risolve in iniziative in ordine sparso, ognuno secondo le sue possibilità. La crisi post-pandemia evidenzia una volta di più la debolezza del modello ordoliberista che informa la costruzione della Ue. Peraltro, bisogna tenere d’occhio l’evoluzione dello scontro aperto dalla sentenza di Karlsruhe, dove si afferma con nettezza che la Germania non intende tollerare deviazioni da quel modello e si dice a chiare lettere che la Ue è qualcosa di molto diverso da uno Stato federale. Ma su questa strada l’Unione rischia veramente di entrare in una crisi irreversibile.
Qual è la sua chiave di lettura delle recenti aste del Btp italiano?
Mi ha colpito il successo dell’asta dei Btp Italia. Che una parte crescente del debito pubblico vada in mano ai risparmiatori italiani può essere considerato un fattore di stabilità. Le condizioni per i sottoscrittori erano certamente favorevoli, ma ci vedo anche un elemento di fiducia nella capacità di ripresa del Paese, che non davo affatto per scontata. In fondo l’insistenza sulla necessità del Mes ha alimentato l’immagine di un paese al tracollo, che non gode più della fiducia degli investitori. Il successo dell’asta è senza dubbio un dato positivo, che ci fa sperare che possiamo farcela senza bisogno di assistenza esterna.
L’azione della Bce non è assistenza esterna?
Non la considero tale: checché ne pensi la Corte federale tedesca, si sta semplicemente comportando da banca centrale.
(Federico Ferraù)