Che non ci sia stata una decisione, è una notizia? Certo che sì: la fumata nera emessa dal Consiglio europeo di ieri, il primo ad aver discusso compiutamente della proposta di Recovery Fund avanzata dalla Commissione di Ursula von der Leyen, è una notizia, di quelle grosse, e non belle per l’Italia.
Significa che quando, prima o poi, si arriverà ad un compromesso positivo sugli aiuti comuni agli Stati più colpiti dalla pandemia – perché certamente vi si arriverà – questi aiuti non potranno in alcun caso essere un pasto gratis. Saranno assoggettati a condizioni severe. Forse non immediatamente contabili – in fondo i Trattati e i loro stramaledetti parametri di deficit e debiti sono e restano per ora sospesi – ma saranno qualcosa di più e per certi versi di peggio: saranno condizioni politiche. Meno misurabili col centimetro e col goniometro, ma proprio per questo in qualche modo più pericolose, perché più soggettive. In una parola: più “politiche”.
Una parola sinistra per un Paese come il nostro dove la politica – e perfino un po’ la democrazia – sono sospese. Dove governa, sforzandosi pure per carità, un premier non eletto; dove governa una maggioranza opposta alla prima coagulatasi dopo le ultime elezioni nazionali, e coaugulatasi in buona parte proprio davanti al comune dissenso verso le dinamiche europee; dove si è poi collaudata l’amorfa alchimia di unire due partiti – M5s e Pd – che si odiavano e si erano insultati a vicenda per tutta la campagna elettorale; dove giorno dopo giorno sta rivelando tutta la sua debolezza lo sterminato e inattuabile profluvio di norme dentro le quali un politburo di alti funzionari hanno incastrato le buone intenzioni prive di sostrato finanziario dettate dagli opposti populismi.
A metà luglio, Covid-19 permettendo, i capi di Stato e di governo s’incontreranno ancora, ma per la prima volta di persona, per ridiscutere del piano di aiuti più sfilacciato della storia, oltre che più ingente, ben consapevoli, almeno si spera, che ogni settimana persa è una settimana di sofferenza in più per decine di milioni di persone.
La von der Leyen l’ha spiegata chiara: restano distanze forti, tutte da negoziare, su quattro temi controversi: le dimensioni degli aiuti, se 750 miliardi o di meno; l’equilibrio fra i trasferimenti e i prestiti (a fondo perduto i primi, da rimborsare i secondi); le nuove risorse proprie dell’Unione in nome collettivo (e il modo migliore per procurarsele sui mercati); e il meccanismo definito rebate cui alcuni Stati membri, finanziatori netti dell’iniziativa (che cioè pagherebbero più di quanto incasserebbero) dovrebbero assoggettarsi. Insomma: il valore monetario dell’inedito altruismo imposto ai Paesi frugali a vantaggio dei Paesi-cicale da un virus che non ha colpito simmetricamente tutti, ma potrebbe in ogni momento decidere di farlo.
Cosa significa tutto questo per l’Italia, ossia per il Paese che più di tutti gli altri ha bisogno e più di tutti gli altri si avvantaggerebbe del Recovery Fund? Significa dover rispondere delle sue azioni. Come la Grecia verso la troika dodici anni fa, sia pure con modalità più eleganti.
In questo momento è la Germania – con tutto il suo peso di potere ma anche con le sue enormi contraddizioni interne – ad essere il migliore alleato dell’Italia. Angela Merkel, la cancelliera tedesca cui spetterà dal 1° luglio la presidenza di turno dell’Unione, ha capito – o meglio ha finalmente deciso – che il nostro è un Paese troppo grande e cruciale per la costruzione unitaria per essere abbandonato a se stesso ed alla sua mancanza di mezzi finanziari pubblici. E la parola chiave, è già chiaro, sarà quella opposta: privati. Mezzi finanziari privati. Di quelli, siamo ricchi. Tanto da averne accumulati di più proprio durante i primi tre feroci mesi di pandemia acuta: 34 miliardi di nuovi depositi in conto corrente effettuati dalle famiglie italiane che hanno potuto e saputo e voluto risparmiare mentre restavano rintanate in casa per il lockdown.
La campana delle controparti verrà fatta suonare per loro, cioè per noi. Avete bisogno dei soldi di tutti? Bene, li avrete: ma in cambio dovrete diventare più europei. Avvicinarvi alla media del sistema unitario: per disciplina fiscale, per efficienza amministrativa, rigore previdenziale, severità economica generale. Ne saremo capaci? Significherà dove imporre una tassa patrimoniale?
“Non posso rispondere di problemi vecchi di decenni”, ha ammesso l’altro giorno, a denti stretti, Giuseppe Conte. Un momento di verità: faticoso, però, da vendere bene all’Europa. Ad un’Europa dove non uno ma almeno cinque Stati dell’Unione, tutti con diritto di veto, non rinunceranno a porre condizioni: Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia. Cinque succursali morali della Germania ma meno di essa consapevoli, forse, di quanto la buona salute italiana sia strategica per l’Europa. O forse impegnati nel ruolo dei “poliziotti cattivi”, a bilanciare la parte di “poliziotto buono” che il regime tedesco ha scelto, stavolta, di recitare.
Sono tanti, 172 miliardi di euro, la quota dei fondi unitari che il piano della Commissione destina all’Italia. Per Giuseppe Conte, la combinazione tra prestiti e sussidi proposta dalla bionda presidentessa “ci aiuterà a realizzare investimenti e riforme in modo da rafforzare la convergenza e la resilienza dell’intera Unione”.
Appunto: riforme e investimenti. Quelle riforme e quegli investimenti che i 5 Stelle, pur nel loro delirio frammentato, sono stati finora sempre compatti nel respingere. La necessità di impegnarsi su riforme credibili minaccia di rivelare che il re italiano è nudo: anzi, che non c’è.