Sul Recovery plan da predisporre per accedere ai fondi Ue “dobbiamo avviare un dialogo con il Parlamento. Dobbiamo trovare il metodo per approntare questo Piano nazionale coinvolgendo il Parlamento e tutte le forze politiche, comprese le opposizioni”. Lo ha detto ieri il premier Giuseppe Conte, intervenendo alla presentazione del rapporto annuale dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, all’indomani della presentazione, da parte del Comitato interministeriale per gli affari europei (Ciae), del piano di massima del Recovery fund e pochi giorni dopo il caveat lanciato dal Commissario europeo, Paolo Gentiloni, che ha avvertito l’Italia sulla tentazione di voler utilizzare parte dei 209 miliardi messi a disposizione dalla Ue per tagliare le tasse. Ma su tempi e modi del Recovery plan restano ancora alcuni step da completare e alcune zone d’ombra da diradare. Per spiegare cos’è, come funziona e qual è il cronoprogramma del Recovery fund così come previsto dagli accordi in sede Ue abbiamo interpellato il professor Lorenzo Pace, professore di Diritto dell’Unione europea nell’Università del Molise.



Cosa è il Recovery fund e perché nasce?

Il Recovery fund, o anche programma per la ripresa e la resilienza, è il più importante dei progetti di finanziamento decisi dall’Unione europea nel luglio scorso. È un progetto che dispone di fondi per complessivi 672,5 miliardi di euro. Questo ammontare è poi suddiviso tra i ventisette paesi dell’Unione. Il programma del Recovery fund rientra sotto il “programma ombrello” del cosiddetto Next Generation Europe, che dispone di complessivi 750 miliardi di euro di finanziamenti per vari progetti oltre al Recovery fund.



Qual è la finalità del Recovery fund?

L’obiettivo è quello di fornire ingenti finanziamenti da parte dell’Unione agli Stati membri per rispondere ai danni economici procurati dalla pandemia senza che i singoli Stati debbano utilizzare altro debito nazionale. Questo è particolarmente importante per Stati con alto debito, come l’Italia. L’Italia ha già effettuato ingenti spese a debito per rispondere alla pandemia. Solo negli ultimi sei mesi ha erogato una somma pari a circa il 4% del proprio rapporto deficit/Pil in spese correnti e, per garanzie e differimento di tasse, una somma pari a circa il 25% del proprio rapporto deficit/Pil: circa 100 miliardi di euro complessivi.



Quindi i fondi europei si aggiungono ai fondi già spesi dai singoli Stati membri?

Sì, i finanziamenti derivanti dal Recovery fund hanno la funzione di partecipare alle azioni di stimolo e protezione già organizzate dai singoli Stati membri. Per l’Italia costituisce probabilmente una storica “ultima chiamata” per adottare delle riforme economiche che permettano, usciti dalla crisi economica, di migliorare l’andamento della propria economia e raggiungere tassi di crescita almeno nella media europea. Cosa che, come noto, non succede da circa vent’anni.

Perché dice che è un’“ultima chiamata” per l’Italia?

Perché a fronte dei danni economici causati dalla pandemia è stata momentaneamente sospesa l’efficacia del Patto di stabilità e crescita, cioè le regole europee relative all’euro. Gli Stati, in buona sostanza, non sono vincolati dalle norme europee sui limiti di debito. L’Italia si trova in un momento in cui può spendere in debito per implementare importanti riforme i cui costi saranno pagati dal Recovery fund. Quando le regole europee si applicheranno nuovamente, si parla di un paio d’anni, non sarà possibile effettuare spese in debito di queste dimensioni. È questa una occasione storica per l’Italia.

Come sono finanziati questi fondi?

I fondi costituiscono dei veri e propri “Eurobonds”. Cioè sono finanziati tramite l’emissione di debito comune europeo, e non dei singoli Stati membri. Sono emessi sui mercati finanziari e i proventi della vendita sono destinati ai vari progetti definiti dal programma “ombrello” Next Generation Europe e, tra questi, il Recovery fund.

I fondi come sono distribuiti?

Sulla distribuzione dei fondi – e questa è forse la cosa più importante e che non si sottolinea a sufficienza – sono ripartiti non in funzione della dimensione dello Stato (economica, per popolazione eccetera), ma in rapporto alla dimensione dei danni economici causati dalla pandemia. Si tratta del primo caso di un programma con finalità di solidarietà tra paesi europei. Infatti il “programma ombrello” Next Generation Europe è stato emanato ai sensi dell’articolo 122 TFUE, come avevo auspicato in un mio articolo. L’articolo 122 TFUE è la norma dei Trattati che individua i casi in cui l’Unione interviene a titolo di solidarietà tra gli Stati. Gli Stati che hanno avuto un maggiore pregiudizio riceveranno maggiori finanziamenti.

Qual è la quota di fondi assegnati all’Italia?

L’Italia è uno dei paesi che riceverà più finanziamenti, in considerazione – ed è il caso di dire, purtroppo – dei danni economici subiti: 208,8 miliardi di euro di finanziamenti, di cui 127,40 di prestiti agevolati e di 81,40 miliardi di finanziamenti a fondo perduto.

Ma i prestiti forniti dovranno essere restituiti e quando?

Allo stato i prestiti dovranno iniziare a essere restituiti tra il 2028 e il 2058, cioè in un periodo di circa quarant’anni. La Commissione vorrebbe riuscire nei prossimi anni ad aumentare le proprie autonome disponibilità di bilancio tramite nuove risorse. L’idea è quella che, in questo modo, anche i prestiti potrebbero essere, in tutto o in parte, ripagati non dagli Stati ma dalla Commissione. In questo modo i prestiti diverrebbero dei finanziamenti a fondo perduto. Sarebbe un risultato storico.
Come funziona l’iter del Recovery fund?

Il procedimento è stato definito durante il Consiglio europeo del luglio scorso. Gli Stati devono proporre i piani nazionali del Recovery fund, cioè i programmi i cui costi dovrebbero essere pagati dai fondi europei. La Commissione ha chiarito successivamente che i programmi dovranno essere presentati entro la fine di aprile del 2021. Gli Stati sono però invitati a presentare entro la metà di ottobre 2020 dei programmi di massima. Come noto, l’Italia ha presentato nei giorni scorsi il proprio programma di massima, le “Linee generali del Piano nazionale di ripresa e resilienza”, per complessivi 209 miliardi di euro. Così hanno anche fatto la Francia, programmi per complessivi 100 miliardi, e la Germania, per 130 miliardi.

Cosa devono fare ora gli Stati per ottenere questi fondi?

Affinché i piani nazionali siano finanziati devono, tra l’altro, rispettare le priorità indicate dall’Unione, cioè la sostenibilità ambientale, la resilienza e sostenibilità sociale e la transizione al digitale. Inoltre devono rispettare le raccomandazioni individuate dalla Commissione negli anni scorsi per i singoli paesi. Nel caso dell’Italia le raccomandazioni riguardano, tra l’altro, la riduzione dei tempi della giustizia civile, la modernizzazione e la riduzione dei tempi della pubblica amministrazione, l’aumento dell’occupazione femminile, la sanità, la sostenibilità ambientale, la transizione al digitale.

La definizione del Recovery plan sarà frutto solo di interlocuzioni dirette fra governo e Commissione Ue? Che ruolo hanno i Parlamenti nazionali?

I Parlamenti svolgono un ruolo centrale. Infatti il Recovery fund è organizzato in modo opposto alla modalità in cui interveniva la Troika durante la crisi dell’Eurozona. In quel caso gli Stati in situazione di crisi dovevano accettare le condizioni imposte dalla Troika. Nel caso del Recovery fund è l’opposto. Sono gli Stati che “scrivono” i piani nazionali del Recovery fund e individuano i progetti che meglio possano migliorare la propria situazione economica. I progetti, come detto, devono rispettare le “ragionevoli” priorità indicate dalla Commissione.
E il Parlamento italiano?
Sono in corso le audizioni dei principali stakeholder e a breve il Governo presenterà il Recovery plan italiano al Parlamento. L’ampio periodo in cui i programmi nazionali possono essere presentati (fino a fine aprile 2021) è pensato non solo per permettere le necessarie interlocuzioni tra Governi nazionali e Commissione europea. E’ pensato anche perché, a livello nazionale, durante la definizione dei programmi, possano essere coinvolti non solo i Parlamenti nazionali, ma anche le autonomie locali, le parti sociali eccetera. Organizzare un confronto democratico su come l’Italia voglia migliorare la propria economia e uscire dalla crisi del Covid-19 è essenziale. Il tempo che rimane però non è molto, vista anche la dimensione dei fondi riconosciuti all’Italia.

I governi nazionali stanno preparando i Recovery plan, ma mancano ancora le “linee guida” della Commissione Ue, che dovrebbero arrivare questo mese. Quanto saranno vincolanti?

Le linee guida della Commissione, che saranno pubblicate a breve, non hanno una propria vincolatività. Esse hanno solo la funzione di chiarire quanto deciso meno di due mesi fa durante il Consiglio europeo. D’altra parte, il Recovery plan costituisce una novità tanto importante quanto sono importanti i danni economici causati dalla pandemia.

L’accordo sul Recovery fund prevede il meccanismo del “freno d’emergenza”. In cosa consiste?

Il “freno d’emergenza” è inserito nella seconda fase della procedura del Recovery fund relativa al controllo della tempistica e aderenza ai progetti iniziali. Tutti e ventisette gli Stati membri sono sottoposti a tali controlli. Nella prima fase della procedura i progetti nazionali del Recovery fund devono essere prima approvati da parte delle istituzioni europee. Una volta approvati, gli Stati possono ricevere un anticipo del 10% della somma totale dei costi dei progetti. Successivamente la Commissione distribuirà i fondi ogni sei mesi dopo un controllo del rispetto del relativo cronoprogramma e della rispondenza ai progetti presentati. Il freno d’emergenza si inserisce nella fase successiva all’approvazione dei piani nazionali del Recovery fund, cioè nella fase di controllo e pagamento semestrali.

Chi lo può attivare? Quando e come può scattare?

Ogni Stato può chiedere che il Consiglio europeo discuta se, da parte di altri Stati, sussistano “gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali”. A fronte di questa discussione, però, nessuno degli Stati può porre il veto al pagamento dei fondi se la Commissione valuti che non sussistano “gravi scostamenti”.

Quindi l’Italia non rischia che altri Stati pongano il veto nella fase di esecuzione dei programmi?

No, è solo la Commissione, nella sua caratteristica di organo autonomo dagli Stati, che decide. Così è disposto dagli articoli 17 TUE e 317 TFUE dei Trattati europei. Non è un caso che il presidente Conte, da “navigato” avvocato, ha voluto evitare che altri Stati in futuro modifichino le “carte in tavola”. Per questo ha richiesto durante le negoziazioni di luglio scorso un parere legale agli uffici dell’Unione. Ottenuto, lo ha fatto allegare alle conclusioni del Consiglio europeo. Su questo punto siamo in una botte di ferro. Sulla bontà degli effetti del Recovery plan per il nostro paese dipende tutto dall’Italia.

(Marco Biscella)