Si fa presto a dire Recovery Plan e a cantarne le “magnifiche sorti”. Per tutti ormai il piano di ricostruzione europeo è un’occasione storica per disporre di fondi europei, fare riforme attese da decenni e finalmente imposte, vuoi dall’Unione Europea, vuoi dalla contingenza della pandemia, ma non è affatto così. Queste riforme – e i relativi fondi – hanno un prezzo. Anzi, due. Il primo è dato dalle condizionalità europee, che ci diranno per filo e per segno cosa fare, il secondo dal fatto che tutti i denari andranno restituiti, anche quelli “a fondo perduto”.



Ne abbiamo parlato con Fiammetta Salmoni, ordinaria di diritto costituzionale nell’Università Marconi di Roma, autrice di un recentissimo lavoro su Recovery Fund, condizionalità e debito pubblico. Con un sottotitolo: “La grande illusione”. Ci siamo fatti spiegare perché, con un parentesi, molto pertinente, sullo stop imposto dalla Corte di Karlsruhe alla nuova Decisione sulle risorse proprie approvata dal Parlamento tedesco. “Vedremo cosa dirà il Tribunale costituzionale federale tedesco” spiega Salmoni “ma penso che troverà il modo di non far saltare il banco” del Recovery.



“Il progetto Ngeu disegnato dalla Commissione per dare una risposta comune ai danni economici e sociali causati dalla pandemia da Covid-19 è un passaggio storico nel processo di integrazione europea”. Lo ha detto il ministro Franco in audizione. Recovery vuol dire recupero, guarigione. Che cosa c’entra con l’integrazione?

A me non sembra che il Next Generation Eu abbia questo significato catartico che qualcuno sta cercando di attribuirgli. È un’assistenza finanziaria agli Stati membri come ce ne sono state molte altre, erogate attraverso altri strumenti: penso al Fesf, al Mesf, allo stesso Mes. Ed esattamente come nelle passate occasioni, questo Recovery Fund è pieno di condizionalità imposte agli Stati membri che avranno accesso ai fondi europei. Condizionalità che sono persino più stringenti di quelle previste dal trattato Mes.



Allora qual è l’obiettivo?

L’Ue, attraverso il Ngeu, entra a gamba tesa non solo sulla struttura economica degli Stati membri, ma anche sulla loro struttura sociale e istituzionale. Le condizionalità servono a rendere cogente questo intervento.

È questa l’integrazione che ci chiede Bruxelles?

L’integrazione europea continua ad essere un processo volto al funzionamento ottimale del libero mercato, nonostante formalmente il Ngeu si fondi sul principio solidaristico ex art. 122 Tfue. Ma se poi si leggono tutti i documenti dell’Unione, di solidarietà si parla solo in funzione del ripristino del mercato unico. Non mi sembra che sia in atto alcun passaggio storico. Semmai una sublimazione della realtà.

Vuol dire che il meccanismo è sempre quello dei famosi “compiti a casa” degli Stati membri?

Precisamente. Se i voti sono insufficienti l’Ue ci potrà richiedere retroattivamente tutti i denari che ci ha trasferito sotto forma di prestiti e/o sovvenzioni. Fino all’ultimo centesimo.

Sembra di ritornare agli anni post-crisi del 2008. Una crisi – allora finanziaria, ora sanitaria – offre l’opportunità per instaurare riforme dal profondo significato politico.

Spesso è proprio in concomitanza con le grandi crisi socio-economiche che si determinano le opportunità di grandi cambiamenti, anche istituzionali. Considerando poi che l’attuale crisi sanitaria, sociale ed economica è sicuramente più devastante di quella “solo” economica del 2008, si potrebbe essere tentati di prevedere un grado di cambiamento assai maggiore di quanto avvenuto allora.

Dove si trovano nero su bianco gli obiettivi?

Nei vari regolamenti che disciplinano il Ngeu: il green e il digitale, che insieme “pesano” per il 57% dei denari del Recovery, su tutti. Quanto questi obiettivi siano utili allo stesso modo per tutti gli Stati membri è un altro discorso.

Qual è il ruolo del parlamento nazionale nelle riforme previste dal Ngeu?

Con pochissime eccezioni, tutte le riforme previste nelle bozze di Piano in circolazione dovranno essere realizzate attraverso atti legislativi, il che implica il totale coinvolgimento del Parlamento.

Però nel corso della sua audizione parlamentare il ministro Brunetta ha confermato che il governo starebbe pensando ad accompagnare il Piano con un decreto “che attuerà tutto quanto previsto dal Piano”.

Le tempistiche assai stringenti e in alcuni casi obbligate dal Regolamento sul Recovery Fund per la realizzazione di riforme e investimenti potrebbero far propendere il Governo per l’adozione di decreti legge. Anche in questo caso, ovviamente, il Parlamento sarebbe comunque coinvolto per la loro conversione in legge.

Al governo basterebbe porre la fiducia.

L’importante è che si dia spazio a tutte le forze politiche per poter discutere democraticamente dei contenuti e, se opportuno, proporre e votare eventuali emendamenti. Se il Governo dovesse porre la fiducia su tutti i disegni di legge di conversione questo non sarebbe più possibile e la democrazia ne soffrirebbe.

Come e perché il Recovery europeo– così ha detto il ministro dell’Economia – va verso la “costruzione di un bilancio europeo comune”?

Non credo che questa affermazione risponda a verità. Finché gli Stati membri non cederanno la propria sovranità fiscale all’Ue il bilancio di quest’ultima sarà sempre alimentato dai denari che gli Stati membri gli trasferiranno. Si fa un gran parlare del finanziamento del bilancio dell’Unione che avverrà tramite l’introduzione di “nuove” risorse proprie e questo dovrebbe portarci alla nascita di un bilancio europeo uguale a quello che predispongono gli Stati nell’ambito delle proprie prerogative sovrane. Ma non è affatto così.

Per quale motivo?

Perché la sovranità fiscale è e rimane nelle mani degli Stati membri, quindi l’Ue non ha alcun potere di decidere su entrate e spese indipendentemente dagli Stati membri. La locuzione “risorse proprie” è molto ambigua e non deve trarre in inganno.

A che cosa si fa rifermento?

Quando parliamo di risorse proprie non parliamo di prelievi fiscali o di altro tipo percepiti direttamente dall’Unione, perché si tratta sempre e comunque di entrate che provengono dagli Stati membri e da essi trasferiti al bilancio dell’Unione.

E non potrebbe essere diversamente?

No, stante il deficit di democrazia e di rappresentanza che affligge l’Ue. La democrazia moderna nasce dall’esigenza di limitare i poteri dei governanti, incluso il potere tributario, attraverso l’operato del Parlamento. Non può, quindi, esservi tassazione senza rappresentanza, né si può immaginare deroga alcuna al principio del no taxation without representation che era e rimane un principio cardine in materia impositiva.

Ma un Parlamento europeo c’è e funziona.

C’è, ma la rappresentanza di cui è titolare è “anomala”, perché frutto dei diversi sistemi elettorali adottati da ciascuno Stato membro, ed è anche limitata e mutevole perché dipende dal processo decisionale nel quale il Parlamento europeo viene coinvolto dal Tfue. Il potere di imposizione fiscale, quindi, non può essere conferito ad un soggetto privo di una piena legittimazione democratica e di limiti costituzionali in funzione garantistica.

Niente capacità impositiva propria, autonoma da quella statuale, niente bilancio comune…

Aggiungo che le nuove “risorse proprie” con cui si finanzierà il bilancio dell’Unione saranno nuove imposte deliberate dai singoli Stati membri e che, per lo più, saranno imposte indirette che colpiranno indistintamente tutti i cittadini. E non sono affatto sicura che in Italia, dove è sancito il principio della progressività dell’imposizione fiscale (art. 53 Cost., ndr), l’introduzione di queste nuove imposte indirette sia legittima costituzionalmente.

L’incostituzionalità delle “risorse proprie” è lo stesso problema che ha indotto i giudici dell’Alta Corte tedesca a fermare la firma del capo dello Stato?

Da quanto ho letto nel ricorso diretto presentato in via di urgenza dall’ex leader dell’AfD Bernd Lucke e sottoscritto anche da altri cittadini, il ricorrente è intervenuto sulla legge con cui è stata approvata dai due rami del Parlamento tedesco la nuova Decisione sulle risorse proprie, per cui il Tribunale costituzionale federale ne ha sospeso la promulgazione. Nel ricorso si chiede se il Recovery Fund sia o meno compatibile con l’ordinamento tedesco. Credo, quindi, che i problemi siano due.

Possiamo spiegarli?

Il primo riguarda la cosiddetta mutualizzazione del debito, perché molti ritengono impropriamente che il Recovery Fund ponga in essere una vera e propria mutualizzazione del debito, cioè i debiti di ciascuno Stato membro diventano “debito comune”. Però mi meraviglio che un economista, perché Bernd Lucke è un economista, ricostruisca il Recovery in questo modo, perché una vera mutualizzazione del debito si ha quando tutti i debiti, passati presenti e futuri, diventano debiti comuni e quindi se uno Stato non ripaga il suo debito questo deve essere coperto dagli altri Stati. E qui c’è un precedente.

Quale?

Quello della sentenza del 5 maggio 2020, dove sempre il Tribunale costituzionale federale tedesco – che stava decidendo sugli strumenti monetari non convenzionali della Bce – ha affermato che la ripartizione tra le banche centrali degli Stati membri della totalità delle perdite che possono essere subite da una di esse a seguito di un eventuale default di uno Stato membro viola la sovranità fiscale e la responsabilità complessiva di bilancio del Bundestag. Però con il Recovery Fund gli unici debiti che vengono mutualizzati sono quelli futuri relativi alla pandemia e secondo me, proprio in virtù della sentenza che ho citato, le obbligazioni che la Commissione emetterà per “coprire” i costi del Recovery potranno essere considerate legittime, sia perché l’Ue limita la mutualizzazione esclusivamente ai debiti futuri, sia perché le obbligazioni europee saranno garantite dal bilancio unionale e dal Quadro finanziario pluriennale. E qui subentra il secondo problema.

Che cosa riguarda?

Riguarda la legge con cui il Parlamento tedesco stava approvando la nuova Decisione sulle risorse proprie, perché il bilancio dell’Ue è alimentato solo dai contributi degli Stati membri. Penso che la questione abbia a che fare con la competenza dell’Unione Europea che, ai sensi del Tfue, non può indebitarsi, mentre come sappiamo i 750 miliardi del Recovery sono debito europeo. Però giuridicamente si potrebbe incardinare questa parziale mutualizzazione nell’art. 125.1 del Tfue, dove si dice che il principio del non salvataggio si può derogare quando si tratta della “realizzazione di un progetto specifico”, nel qual caso sono consentite garanzie finanziarie reciproche. Resta il fatto che il ricorso appena presentato solleva problemi concreti.

È uno stop al Recovery?

È un rallentamento, perché la sospensiva è obbligatoria in caso di procedura d’urgenza. Vedremo cosa dirà il Tribunale costituzionale federale tedesco, ma penso che troverà il modo di non far saltare il banco.

Torniamo a noi. Sempre secondo Franco gli interventi del Ngeu mirano “anche a ridisegnare in un orizzonte di medio-lungo periodo l’economia e la società europea”. Dunque anche la nostra. Con quale legittimazione?

Le riforme ci sono imposte. Su questo non c’è molto altro da aggiungere. Però capire quali siano le riforme di cui necessita l’Italia non dovrebbe essere compito dell’Ue, che non ha alcuna legittimazione a farlo. Forse nelle materie in cui ha competenza esclusiva, ma allora in quel caso dovrebbe adottare propri atti normativi che si applicano direttamente in Italia al posto della disciplina italiana. Ma là dove la competenza è degli Stati membri, ritengo che l’Unione non dovrebbe imporci alcunché.

E qui torniamo alle condizionalità.

Sì, perché il Regolamento sul Recovery Fund prevede che per accedere ai fondi europei gli Stati membri debbano sottostare a rigorosissime condizionalità, tra cui anche tutte le indicazioni contenute nelle ultime Raccomandazioni Paese rivolte all’Italia nell’ambito del semestre europeo.

E il principio solidaristico?

Le condizionalità rappresentano quanto di più lontano possa avere attinenza con il principio solidaristico, perché è come dire “se non fai questa cosa io non ti aiuto”. Insomma, le condizionalità sono, di fatto, un vero e proprio strumento di controllo.

Può spiegarci gli effetti combinati di Recovery Fund, Patto di stabilità attualmente sospeso e debito pubblico?

Fra gli effetti negativi più evidenti della crisi pandemica uno dei più rilevanti è senz’altro l’aumento del debito pubblico che in Italia, a gennaio 2021, ha superato i 2.600 miliardi di euro. Una crescita dovuta principalmente alle misure di sostegno poste in essere in deroga al Patto di stabilità che, come noto, è stato sospeso a seguito della pandemia. La sospensione del Patto, però, come non manca di precisare l’Ue, non ne sospende le procedure.

Cioè in questo momento il debito degli Stati membri non viene “contato” ai fini del rispetto dei parametri deficit/Pil e debito/Pil. Ma dopo?

Cosa accadrà quando il Patto rientrerà pienamente in vigore non oso pensarlo. Immagino, anzi, spero, che qualche modifica del Patto, che escluda il debito per investimenti dal calcolo dei parametri da rispettare, sarà fatta.

Draghi non ha escluso una riforma, che dovrebbe essere nell’interesse di tutti.

Sta di fatto che in questo momento il Recovery Fund aggraverà ulteriormente la posizione debitoria dell’Italia. Direttamente, per la componente “prestito”, che ovviamente porterà ad un incremento del debito per un valore pari alla somma incassata, più gli interessi che dovremo restituire.

E per quanto riguarda la quota a fondo perduto?

Non dovrebbe aggravare il debito pubblico italiano; ma solo perché, trattandosi di somme che vengono definite “a fondo perduto”, formalmente non saranno appostate a bilancio come debito. Purtroppo però i tecnicismi di bilancio non possono cancellare la realtà dei fatti, e cioè che anche questi contributi a fondo perduto sono in realtà altro debito “sostanziale”.

Debito che va ripagato.

Certo. Tanto è vero che per ripagare questi contributi è stata prevista sia l’introduzione di nuove risorse proprie – nuove imposte a carico dei contribuenti italiani –, sia l’innalzamento del massimale delle attuali risorse proprie e, quindi, una percentuale più alta di soldi che come Italia dovremo trasferire al bilancio dell’Unione.

Il titolo del suo ultimo lavoro è dedicato a Recovery Fund, condizionalità e debito pubblico. Con un sottotitolo molto esplicativo: “La grande illusione”. Perché parla di illusione?

È l’illusione che saremo sommersi da un fiume di miliardi a fondo perduto che non dovremo mai restituire. In realtà, semplificando al massimo, gli ingenti fondi reperiti sui mercati dall’Europa e da questa trasferiti “a fondo perduto” agli Stati, dovranno prima o poi essere rimborsati agli investitori. E l’Europa dove potrà trovare i soldi per questi rimborsi, se non dagli stessi Stati membri?

Ma perché, scusi?

È come se nel palazzo dove abitiamo tutti i condomini decidessero di ristrutturare casa, ma anziché accendere ciascuno per conto proprio un mutuo in banca, ci accordassimo per far chiedere un unico prestito all’amministratore del condominio, che poi ridistribuisce i fondi a ciascun condomino. Tecnicamente nessuno di noi è indebitato, perché solo il condominio lo è. Ma tutti dovremo versare soldi nelle casse del condominio, con un aumento proporzionale delle rate condominiali, per far fronte al pagamento delle rate del mutuo. Sia chiaro, questi soldi ci servono, eccome; ma nessuno ce li regala. Ma l’illusione più grande, cui mi riferisco nel libro, è un’altra.

Quale sarebbe?

Quella di aver trovato finalmente un’Europa che sia madre e non più matrigna. Invece, purtroppo, non è affatto così. Checché se ne dica l’Europa continua a essere una matrigna con figli e figliastri. L’approccio dell’Ue non è cambiato di una virgola: prestiti in cambio di rigorose condizionalità; imposizione di aggiustamenti macroeconomici in caso di mancato rispetto delle regole sulla governance economica e di quelle più specifiche sul Ngeu, il che vuol dire agitare lo spauracchio delle politiche di austerità che in passato hanno fatto tutti i danni che ben conosciamo. Ma, soprattutto, sopra ogni cosa, il libero mercato che deve riprendere a funzionare come e meglio di prima, a tutti i costi, nonostante tutte le difficoltà. 

Non è lo stesso approccio neoliberista che ha determinato il disastro dell’Ue sull’approvvigionamento dei vaccini?

Certo. È questa la grande illusione: quella della pandemia sarebbe stata un’occasione d’oro per trasformare l’Ue in un qualcosa di diverso da un insieme di organi e istituzioni tecnocratiche. Ma non è accaduto.

(Federico Ferraù)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI

Leggi anche

DIETRO LE QUINTE/ Se Prodi e Monti "catturano" Fitto (per conto di Mattarella)ACCORDO SULLE NOMINE UE/ “Tatticismi irrilevanti, le élites europee sono sempre più in crisi"SCENARIO UE/ Le chances di von der Leyen tra socialisti, Meloni, Germania e Draghi