Il Recovery Fund, esaltato da più parti come il “momento hamiltoniano” della storia dell’Unione Europea, la svolta salvifica attraverso la quale l’Unione trasforma sé stessa da freddo organismo sovranazionale, volto solo al perseguimento del profitto, in una madre benevola, non è altro che l’ennesima forma di assistenza finanziaria, oltre tutto insufficiente a risolvere la quantità e l’ampiezza dei problemi del nostro Paese.
Né ci si deve far trarre in inganno dalla retorica che vede nel Recovery Plan presentato dal nostro Governo lo strumento attraverso il quale si realizzerà la “ricostruzione” dell’Italia (come se ci trovassimo in un’economia di guerra, una metafora spesso usata ma senza alcun approfondimento su cosa ciò starebbe realmente a significare), destinato a rilanciare il nuovo miracolo economico.
Il Recovery Fund infatti è stato concepito per continuare a mantenere allineate le economie degli Stati membri all’ortodossia neoliberale, come emerge chiaramente persino dalla tempistica indicata per la realizzazione delle riforme, ma anche dalle liberalizzazioni in materia di energia elettrica o in quelle previste in materia di pubblica amministrazione da attuarsi in maniera pro–concorrenziale, o ancora in materia di mobilità dei lavoratori e così via.
Persino riguardo a un tema come quello della riforma della giustizia si sente l’eco di un impianto convintamente neoliberistico, quando si legge che la lentezza della giustizia “mina la competitività delle imprese e la propensione a investire nel Paese”.
Non pochi, inoltre, sono i dubbi sulla reale efficacia del Recovery Fund, articolato com’è in moltissimi micro–interventi frutto delle onnipresenti pressioni lobbistiche, che rischiano di vanificarne gli impatti macroeconomici, senza sostenere la domanda effettiva di beni e servizi.
Insomma, non solo a fronte degli investimenti e delle riforme richieste dall’Ue in cambio dell’assistenza finanziaria le risorse sono oggettivamente poche, non solo si riversano in mille rivoli con poca coerenza, ma anche quella programmazione che sarebbe stata necessaria per rendere gli obiettivi armonici e verificabili sembra debole.
Vi è poi da sottolineare la mancanza di un serio coinvolgimento del Parlamento nella predisposizione, approvazione e gestione del Piano, tanto che, il 26 e il 27 aprile 2021, nel presentare il Pnrr alla Camera e al Senato, il presidente del Consiglio Draghi, in certa misura, si è scusato e ha ringraziato l’organo della rappresentanza politica “per aver effettuato, con rapidità (…) un ingente lavoro di sintesi delle osservazioni e delle istanze di numerosi enti istituzionali e associazioni di categoria ed esperti, che ha contribuito alla fase finale di definizione del Piano”.
Tuttavia, desta notevoli perplessità il fatto che su circa 60 provvedimenti normativi da adottare in base al Pnrr trasmesso a Bruxelles, siano contemplati un certo numero di decreti ministeriali o interministeriali, una buona parte di decreti legge, ma per la maggior parte sono previsti decreti legislativi adottati sulla base di leggi delega di iniziativa governativa in cui, talvolta, sia il termine, sia i principi e criteri direttivi sono già elencati nel Piano. Con il che si pone in essere la consueta pratica che individua i principi e criteri direttivi che dovrebbero essere contenuti nella legge delega per relationem, una pratica che, seppur dichiarata legittima dalla Corte costituzionale, mi sembra difficilmente accettabile quando i medesimi siano addirittura contenuti in un Piano senza alcuna natura normativa.
Martedì scorso poi, con una terminologia usata dai mezzi di comunicazione alquanto grottesca, l’Italia ha ricevuto la “pagella” da Ursula von der Layen, che, dopo avere, per l’ennesima volta, incensato sé stessa (“il piano italiano” scrive la Commissione “fa parte di una risposta coordinata e senza precedenti dell’Ue alla crisi Covid-19; una risposta volta ad affrontare le sfide comuni europee, accogliendo le transizioni verde e digitale, e a rafforzare la resilienza economica e sociale e la coesione del mercato unico”) ha trasmesso al Consiglio la Proposta di decisione di esecuzione relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia, che il Consiglio stesso dovrà adottare entro quattro mesi.
Bene, siamo stati promossi. Ma davvero qualcuno avrebbe potuto dubitarne?
Per curiosità, ma forse anche con una punta di masochismo, chi vuole può leggersi la “pagella” che la Commissione europea ha dato alla Germania. Niente da dire. Entrambi i Paesi hanno “rating A” su tutte le voci esaminate, tranne che sui “costi”, dove la Commissione ha valutato con “rating B” sia la Germania che l’Italia, perché “la giustificazione fornita nel piano in merito all’importo dei costi totali stimati dello stesso è in misura moderata (rating B) ragionevole e plausibile, è in linea con il principio dell’efficienza in termini di costi ed è commisurata all’impatto nazionale atteso a livello economico e sociale”.
Stesse identiche parole, dunque, per l’unica “B” che hanno preso la formica Germania e la cicala Italia (ma poi, leggendo anche le altre pagelle, anche tutti gli altri Stati membri hanno avuto una bella B sui costi e la frase utilizzata dalla Commissione è sempre la stessa).
Fantastico! Finalmente gli Stati europei – fra cui anche l’Italia – sono diventati virtuosi e possono guardare negli occhi con fierezza la Germania, non più la solita e solitaria prima della classe.
Peccato che nell’esame effettuato ai sensi del regolamento 1176/2011 (uno dei 5 regolamenti del six pack, sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici), la stessa Commissione afferma che “l’Italia presenta squilibri macroeconomici eccessivi, soprattutto per quanto riguarda l’elevato debito pubblico e la prolungata debole dinamica della produttività, che hanno rilevanza transfrontaliera in un contesto di fragilità del mercato del lavoro e del settore bancario” (punto 3).
Cosa vuol dire? Significa che gli squilibri macroeconomici eccessivi dell’Italia sono ancora tutti lì, persino più di prima, sotto gli occhi di tutti. Ora, poiché, come già sottolineato in più occasioni sia da me, sia da altri studiosi, la clausola di salvaguardia generale che ha sospeso il Patto di stabilità e crescita non ne ha sospeso le procedure, quando il Patto sarà ripristinato, Recovery o non Recovery, torneremo ad essere gli scolari che non fanno i compiti e la maestra Ursula tornerà a bacchettarci.
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