Al termine della riunione del 10 dicembre del Consiglio della Banca centrale europea e della sessione del 10 e 11 dicembre del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo sono emerse due indicazioni molto precise per l’Italia, che non sappiamo se l’attuale Governo vorrà, e potrà, seguire.

La prima riguarda i tempi per l’inizio di un vero riassetto strutturale che dia la priorità alla crescita anche e soprattutto tramite il riordino della spesa pubblica: contenimento di quella di parte corrente ed espansione di investimenti pubblici valutati analiticamente e ad alto rendimento economico. I tempi – sulla stampa quotidiana pare averlo notato solamente Federico Fubini del Corriere della Sera – sono dettati dalla decisione di estendere il Pandemic Emergency Purchase Program (Pepp) della Bce sino a fine marzo 2022, dopodiché, secondo la Presidente e il Consiglio della Bce non sarebbe più necessario in quanto le vaccinazioni dovrebbero assicurare una sostanziale immunità di gregge in Europa.



Sinoora, l’Italia è stato il principale beneficiario del programma, che è stato uno scudo nei confronti del sempre crescente debito della Pubblica amministrazione a ragione principalmente delle spese per portare sollievo ai settori economici e agli strati della popolazione più colpiti dalla pandemia. Questo scudo ha fatto sì che i mercati finanziari internazionali accettassero ancora di buon grado i nostri titoli di stato non acquistati dalla Bce. È chiaro che non tutte le banche centrali nazionali che costituiscono il Consiglio della Bce vedono di buon occhio questa misura. La quale, quindi, non può essere protratta all’infinito.



Il termine (marzo 2022) è abbastanza ampio per fare sì che il Governo (o i Governi) dell’Italia possano mettere in atto quanto meno l’inizio di una seria ristrutturazione della spesa di parte corrente: dalla revisione del reddito di cittadinanza e di numerosissime “tax expenditures” (che il disegno di legge di bilancio all’esame del Parlamento aumenta invece di contenere) a operazioni come quelle che coinvolgono l’ennesimo tentativo di salvataggio di Alitalia, nonché l’immissione di capitale pubblico in istituti di credito e aziende di dubbia solvibilità e in perdita strutturale.



In parallelo con la ristrutturazione della spesa di parte corrente deve iniziare un rilancio degli investimenti pubblici di alta qualità. Questo è il messaggio principale da recepire dal Consiglio europeo del 10-11 dicembre in cui si è trovato un marchingegno giuridico piuttosto complesso (verrà esaminato da altri, ossia da giuristi di rango, su questa testata) per risolvere il nodo dell’attuazione o meno delle regole europee in materia di “stato di diritto2 e, quindi, si è dato il via alla partenza del programma Next Generation Ue di cui è parte significativa il Resilience and Recovery Facility (Rrf) da cui l’Italia conta di ottenere circa duecento miliardi nei prossimi anni. La qualità degli investimenti del Rrf, e della loro attuazione, sarà il banco di prova dell’efficacia della ristrutturazione della spesa.

Il Rrf non salperà subito, anche se diversi Stati (Italia in prima fila) insistono che venga erogato un anticipo entro la primavera del 2021. L’accordo deve essere ratificato prima di avere efficacia giuridica. In media la ratifica degli accordi intergovernativi europei richiede cinque mesi; quindi, il Rrf si estenderà da metà 2021 ad almeno metà 2028, dato che la realizzazione dei singoli progetti richiede, in media, cinque anni e che prima dell’erogazione dell’ultima tranche del finanziamento si dovrà condurre una valutazione ex-post sia di ciascun singolo progetto che del Rrf complessivo.

Mentre altri Stati dell’Ue sono molto avanzati (sul sito del ministero dell’Economia e delle Finanze della Francia – dove per le finalità del Rrf si è data nuova vita al Commissaire au Plan creato nel dopoguerra e soppresso nel 2006 – si possono leggere i bandi di gara per i progetti, gare ovviamente condizionate dal recepimento del finanziamento), l’Italia appare, più che in ritardo, in una situazione confusa.

È stata presentata una bozza di Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) giunta in consiglio dei Ministri circa due settimane fa. Non solo numerosi Ministri hanno protestato perché si chiedeva la loro approvazione senza che avessero il tempo per leggerla, ma il documento pone l’accento più che su una visione del futuro (Next Generation Eu) e sulla collocazione dei singoli progetti in questa visione, sulla gestione, da affidarsi a una “cabina di regia” guidata dal presidente del Consiglio, affiancato dai ministri dello Sviluppo economico e dell’Economia e delle Finanze, con il supporto di sei manager e trecento esperti, tutti assunti senza fare ricorso a concorsi o a procedure di evidenza pubblica. Basta scorrere le cronache per avere contezza di quale putiferio si è aperto all’interno dello stesso Governo.

Al momento in cui viene scritta questa nota, una sola cosa è certa: il Pnrr verrà riscritto e presentato in Parlamento. Nel Pnrr riveduto e corretto, occorrerà precisare cinque punti:

1) Se la ripartizione dei finanziamenti tra i sei settori è il risultato di un lavoro “top down” o “bottom up”. Ossia se è frutto di un’analisi effettuata con la modellistica econometrica disponibile al ministero dell’Economia (Mef) o all’Istat per trovare, tra le tante ripartizioni possibili quella che meglio ottimizza gli obiettivi in termini di crescita del Pil e dell’occupazione. Oppure se è la mera sommatoria dei fondi richiesti per la sessantina di progetti prescelti.

2) Occorre esplicitare come si è passati appunto dai circa 600 progetti iniziali – secondo le anticipazioni fornite dai portavoce della presidenza del Consiglio – alla sessantina circa del Pnrr. Ciò vuol dire anche informare il Parlamento su chi ha fatto la valutazione e la selezione e se sono utilizzati i “parametri di valutazione” definiti dal Cipe nel lontano 1984 o quelli elaborati dal Cnel nel 2012 od altri più recenti. Dato che il finanziamento complessivo richiesto per il totale dei progetti considerati singolarmente validi superava di certo il finanziamento disponibile, occorre esplicitare criteri di scelta sono stati adottati, se si è fatto ricorso ancora alla modellistica Mef e/o Istat oppure alla méthode des effets, nata in Francia e in uso all’Ue, per individuare il “grappolo di progetti” – così dicono da decenni le guide europee – che meglio risponde agli obiettivi.

3) La prossima stesura del Pnrr deve contenere una breve appendice che illustri i principali indicatori economici e sociali (quali il tasso di rendimento interno, l’occupazione creata sia in fase di cantiere sia a regime, il reddito generato per la fasce deboli) per ciascuno dei circa sessanta progetti. In tal modo, chiariti i parametri di valutazione e i criteri di scelta, si rafforzerebbe la posizione italiana in sede Ue, rispetto agli altri Stati dell’Unione.

4) Dato che il Rrf richiede una valutazione ex post dei singoli progetti per l’erogazione dell’ultima tranche di finanziamenti, sarebbe bene esplicitare da ora come e da chi verrà fatta tale valutazione. Anche perché l’unica manualistica disponibile in Italia risale al 1991.

5) Infine, occorrerà delineare come verrà gestita l’intera operazione: o affidandosi ad un ente autonomo guidato da personalità di alto rilievo o utilizzando per l’indirizzo politico i comitati interministeriali esistenti (come il Cipe e il Ciae) e, come in quasi tutti gli Stati beneficiari, dando il coordinamento complessivo al ministero dell’Economia e delle Finanze che collaborerà con Ministeri e Regioni quanto dovuto. Di particolare rilievo, un punto ignorato dall’attuale stesura del Pnrr: il controllo finanziario. Arduo vedere altri chi possa farlo se non la Ragioneria Generale dello Stato.