Se il Consiglio europeo iniziato ieri pare vicinissimo a sbloccare il cammino del Recovery fund, superando quindi i veti di Polonia, Ungheria e Slovenia, in Italia non si è ancora sciolto il nodo relativo al Recovery plan, emerso dopo lo “strappo” di Matteo Renzi e di Italia Viva rispetto al piano di governance messo a punto dal Premier Conte. Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, è convinto che una quadra alla fine verrà trovata, «mi preoccupano di più le battute di arresto realizzative in cui il Recovery plan potrà incappare, perché la sfida reale che abbiamo davanti è dimostrare di essere un Paese efficiente in grado di imboccare la via della vera modernizzazione, non il Paese che non riesce quasi mai a completare le opere nei tempi e nei modi giusti».
Il nuovo ponte di Genova è stata quindi un’eccezione irripetibile?
Resta un esempio per ora isolato, una specie di miracolo che bisognerebbe cercare di replicare quanto più possibile. C’è sempre sostanzialmente da superare il problema della burocrazia e il fatto che i cantieri da sbloccare non siano stati ancora sbloccati non è certamente un bel segnale.
I sei super-manager, che sono tra l’altro al centro delle tensioni politiche tra Renzi e Conte, non dovrebbero aiutare proprio a replicare il modello del ponte di Genova?
Non credo che i super-manager siano la chiave di volta per vincere la sfida. Occorre che ci sia anche un’organizzazione a valle delle decisioni che consenta di non incontrare intoppi o veti. Negli altri principali Paesi europei c’è una macchina burocratica efficiente che fa sì che il ministro si trovi sul tavolo un progetto già pronto con tutte le autorizzazioni necessarie per far partire il progetto stesso. In Italia al momento possiamo essere fiduciosi sui progetti che vedono impegnate società pubbliche o partecipate come Enel, Snam ed Eni, che hanno strutture in grado di portarli avanti fino alla realizzazione nei tempi dovuti. Ma in altri settori, come la sanità o la scuola, dove non esistono operatori di questo tipo, con un’impostazione aziendale, emerge come lo Stato sia ormai esclusivamente burocrazia e non più un’entità in grado di realizzare veramente i progetti.
Un problema che riguarda quindi anche le strutture ministeriali…
Negli anni i ministeri si sono purtroppo svuotati di personalità tecniche operative, tanto che sono ormai affollati di consulenti esterni. Con il Recovery plan lo Stato è chiamato ad ammodernarsi e sarebbe importante che ci venisse spiegato come si intende raggiungere questo obiettivo, altrimenti si rischia solo di avere un elenco di risorse, con le relative destinazioni, senza sapere chi si occuperà di autorizzazioni, permessi e procedure. Questo è un problema non solo perché le risorse arriveranno in base allo stato avanzamento lavori, ma perché ci mette in cattiva luce agli occhi europei, cui già non stiamo offrendo un bello spettacolo.
Da che punto di vista?
Non è certo passato inosservata l’impreparazione cui siamo arrivati alla seconda ondata del Covid, quando non si trattava di prendere la decisione più “facile” del lockdown generalizzato e prolungato come in primavera, ma occorreva coordinamento, interventi efficaci su trasporti e sanità per tempo, ecc. Nonostante tanti esperti e tanti indicatori è emerso un problema di competenza, c’è stata troppa approssimazione. C’è da sperare che non si ripeta qualcosa di analogo anche nella distribuzione dei vaccini anti-Covid: l’Italia rischia non solo un flop, ma una figuraccia internazionale, che non sarebbe certo un buon viatico in vista del Recovery fund.
A sentire le dichiarazioni delle ultime settimane, anche da parte del Commissario Arcuri, sembrerebbe essere tutto ben avviato.
C’è da augurarsi che sia così, ma sarà un’impresa non indifferente, sarà un test importante per capire se nel momento in cui verrà chiamata a operare la macchina statale, essa sarà in grado di farlo. È stato anche evocato l’uso dell’esercito e certo non possiamo pensare di utilizzarlo anche per realizzare le grandi opere piuttosto che la digitalizzazione della Pa o la transizione energetica. Serve quindi una svolta sul piano della competenza, dell’organizzazione e della capacità realizzativa.
Come, saprà una parte delle risorse a prestito del Recovery fund verranno utilizzate per finanziare non nuovi progetti, bensì piani già esistenti. Cosa ne pensa?
Non è un buon segnale. Non credo che si possa giustificare una scelta del genere con la volontà di evitare un aumento del debito pubblico, perché se si tratta di debito buono, come dice Draghi, esso fa crescere il Pil e si rende sostenibile. Il problema di finanziare con le risorse europee progetti che dovrebbero già essere avviati è che si ammette implicitamente di non essere in grado di spendere in maniera efficiente le risorse.
C’è da sperare che invece siano spese bene, perché il settore pubblico è investito del ruolo di essere motore della ripartenza.
Certo. È positivo che parte delle risorse siano destinate a implementare Industria 4.0, così da dare un impulso al settore privato, ma occorre che oltre ai documenti ben scritti vi sia, da parte dello Stato, la decisione e la capacità di essere operativi nell’immediato.
(Lorenzo Torrisi)