È altamente probabile che la crisi tra i partiti della maggioranza, in corso da alcune settimane e con la conseguenza di una paralisi dell’azione di Governo, verrà ufficializzata quando non si riuscirà a trovare un accordo, neanche di facciata, sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e sulla Recovery and Resilience Facility per agevolare la sua attuazione. Non sarà, però, né sugli orientamenti generale dal Pnrr, di cui il ministro dell’Economia e delle Finanze ha presentato una nuova bozza sintetica con allegata tabella sulla ripartizione dei finanziamenti, né su come allocare le risorse tra questo e quel settore o tra questo e quel progetto. Sarà su quello che può essere chiamato il “sottostante” ossia sulle “riforme” della cui attuazione il Pnrr e la Recovery and Resilience Facility dovrebbero essere uno strumento. Mentre sul riparto – o detto volgarmente “spartizione” – dei fondi si può trovare un accordo (e da avvocato civilista il presidente del Consiglio è maestro di queste “transazioni”), sulle “riforme” i partiti e i movimenti che compongono la maggioranza sono agli antipodi. Facciamo alcuni esempi.



In primo luogo, la giustizia. La bozza del Pnrr di dicembre pone come finalità dei finanziamenti (digitalizzazioni e assunzioni) «la riduzione del carico di lavoro dei magistrati», il minimo, anzi minimalissimo, denominatore su cui si è trovata un’intesa. Non è certo una finalità adeguata per il resto dell’Unione europea, che vede il Pnrr e l’annessa Facility come un programma pluriennale di riassetto strutturale per risolvere i nodi di fondo del “grande malato”, l’Italia, che minaccia di portare a fondo il resto della cordata. Si dovrebbe rivedere la “norma Bonafede” sulla prescrizione (non era negli accordi di Governo tale revisione?), snellire le procedure, separare le carriere di inquirenti e giudicanti, ove non porre la magistratura inquirente sotto la guida del ministero della Giustizia (come avviene in quasi tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, oltre che in quasi tutti quelli dell’Ue), scrivere un nuovo diritto dell’economia e tante altre modifiche, scadenzate su cinque anni con un cronoprogramma e indicatori monitorabili. Tutto ciò è molto divisivo in una coalizione tra parti con visioni politiche divergenti e differenti.

In secondo luogo, la Pubblica amministrazione. Le bozze del Pnrr intendono riformarla tramite informatica e concorsi. I partiti e movimenti della maggioranza non si sono messi d’accordo su una proposta sensata e davvero sia minimale che semplice: applicare anche alla Pa i “contratti di espansione” per agevolare il ricambio generazionale: facilitare, su base volontaria, l’andata in quiescenza di dirigenti e funzionari anziani per sostituirli con giovani tramite procedure di evidenza pubblica ma più snelle e meglio mirate degli attuali concorsi. Figuriamoci se si trova un’intesa sul resto.

In terzo luogo, l’occupazione e il lavoro, soprattutto quello giovanile e femminile. Si dovrebbero rivedere drasticamente il reddito di cittadinanza e l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. Sono ambedue oggetto non di critica ma di scherno nel resto dell’Ue. Il “reddito” perché le analisi disponibili mostrano che la metà dei percettori sono “evasori tributari” che guadagnano “al nero”; le cronache nere dei giornali dicono anche cose peggiori. Le politiche attive per gli scandali, veri o presunti di cui parla la stampa, sulla loro gestione e soprattutto per i pochissimi risultati raggiunti. Tali “revisioni” riguardano bandiere del Movimento 5 Stelle, considerate intoccabili.

In quarto luogo, l’istruzione. Si sarebbero dovute porre domande profonde sia sulla scuola, sia sull’università. E dare risposte preliminari e un programma quinquennale di “riforme”. Perché l’Italia ha un anno di più di scuola (13 anziché 12) degli altri Stati dell’Ue e di gran parte di quelli dell’Ocse? Non si devono aggiornare programmi e didattica? Come riorientare la formazione (soprattutto quella permanente) dei docenti? Come risolvere su base competitiva e basata sul merito il nodo dei “precari”? E per migliorare università e ricerca il diluvio di borse e di contratti a termine – previsti nel Pnrr- sono la ricetta appropriata se non si revisionano i concorsi?

In quinto luogo, quali misure legislative si devono preconizzare per rendere più compatibili con l’ambiente l’industria e i servizi? Qual è la compatibilità dell’ingresso di Invitalia negli impianti ex Ilva di Taranto con una politica industriale rispettosa dell’ambiente? 

È banale e fuorviante dire, come si ripete specialmente tra i leader del M5S che per tali “riforme” non si può fare l’analisi economica richiesta dall’Ue. Non solamente le varie stesure del Pnrr non presentano un minimo di analisi costi-benefici per i progetti inclusi nel programma. Leggano sulle “riforme” il saggio di Balázs Ègert, uno degli economisti di punta dell’Ocse, The Quantification of Structural Reforms: Taking Stock of the Results for OECD and Non-OECD Countries nell’ultimo fascicolo (Dicembre 2020) dei Cesifo Working Papers. Il Cesifo è il centro di studi e ricerche di Monaco a cui più ha fatto ricorso Angela Merkel negli ultimi 15 anni. In 36 pagine, la ricerca quantizza gli effetti di medio e lungo periodo in settori come il mercato del lavoro, il sistema giudiziario, la competitività, la qualità delle istituzioni (quindi della Pubblica amministrazione), l’istruzione e via discorrendo. 

Senza “riforme” non si ha un Pnrr che, per di più, deve essere condiviso con il resto del Parlamento in quanto la sua durata scavalca il termine naturale della legislatura; parte importante degli stessi affidamenti di appalti avverranno dopo la scadenza delle attuali Camere e data la riduzione del numero dei parlamenti, alcuni dei protagonisti di oggi saranno tornati alle loro occupazioni abituali: insegnamento universitario, professioni liberali, vendita di assicurazioni oppure anche di bibite e panini.

È un Pnrr di “riforme” per l’Italia. Non per chi è oggi al Governo.