In queste settimane molta attenzione è stata dedicata alla governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Tante polemiche, più accentuate sul come fare, e da parte di chi, rispetto al cosa fare. In generale i programmi economici dei governi definiscono gli obiettivi da raggiungere, le politiche e gli strumenti considerati utili per il loro conseguimento, le risorse finanziarie necessarie e i tempi di realizzazione dei progetti. Tutte cose non facili da fare in Italia. Nel caso del Pnrr, l’azione del Governo per definire gli obiettivi generali, i tempi e l’uso delle risorse (209 miliardi da spendere entro il 2026) è condizionata dal Next Generation Eu.
Molta attenzione è stata concentrata non tanto sull’assegnazione delle risorse ai singoli progetti (ad esempio, transizione ecologica, digitalizzazione, sanità, ecc.), quanto sulle modalità di spesa e su quelle che si seguiranno per metterli a disposizione degli organi che devono realizzarli, vale a dire su come e chi avrà la responsabilità di attuare il Pnrr.
Senza entrare nel merito dei contenuti del Pnrr, un breve ripasso delle esperienze della stagione della Programmazione economica in Italia è utile per capire che non basta fare (e dire di avere) un piano per produrre i risultati desiderati, tanto più in una situazione di crisi economica drammatica.
In primo luogo, va ricordato che, dopo la realizzazione del Piano Fanfani per la casa del 1949 e il Piano Vanoni (Schema per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione 1955-1964) e alcuni piani settoriali (scuola e ferrovie), la Programmazione si è strutturata con la famosa Nota Aggiuntiva di Ugo La Malfa del 1962 che ha segnato una svolta politico-ideologica nell’impostazione delle scelte di politica economica.
Seguiranno altri documenti di grande interesse, ai quali hanno lavorato i migliori esperti: il rapporto Saraceno, il Piano Giolitti, il Primo programma economico nazionale, fino ad arrivare a una nuova modalità di programmazione nel Progetto ’80 che presentava una visione territoriale dei problemi e delle soluzioni.
Tuttavia, e veniamo al secondo punto, si può osservare che nel pieno della stagione della Programmazione economica, sopra solo sommariamente riassunta, è emerso il problema del passaggio dalle impostazioni all’attuazione delle politiche e del raccordo tra i diversi attori economici, imprese pubbliche e ministeri.
Per questa ragione, nel 1967 (legge n. 48, art. 16) è stato istituito il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) con la missione di promuovere l’unificazione dei centri di coordinamento interministeriale competenti in materia di politica economica. Dunque il Cipe, presieduto dal presidente del Consiglio dei ministri, era stato istituito come unica sede di compensazione tra organi di governo individuali (i ministeri) e l’organo collegiale, il Consiglio dei ministri, in uno schema decisionale ternario.
Da allora a oggi il quadro europeo è cambiato, ma non va dimenticato che al Cipe era assegnato anche il ruolo di armonizzare la politica economica nazionale con le politiche economiche degli altri paesi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), della Comunità economica Europea (Cee) e della Comunità europea dell’energia atomica (Ceea). L’obiettivo era costruire un governo unitario dell’economia per affrontare in modo diretto il potere delle maggiori burocrazie parallele, tendendo a rompere gli ambiti settoriali, al riparo dei quali si era consolidato nel decennio precedente il legame tra potere politico e apparato dell’intervento pubblico nell’economia.
Attualmente il Cipe è sempre il centro di decisione della programmazione e dell’attuazione degli investimenti pubblici. In pratica: alloca le risorse finanziarie a programmi e progetti di sviluppo; approva le principali iniziative di investimento pubblico; assegna i finanziamenti comunitari (co-finanziamento). Le decisioni del Cipe, quale organo collegiale del Governo (nel quale sono rappresentati la Banca d’Italia e l’Istat) che opera all’interno della presidenza del consiglio dei Ministri, ed è supportato da strutture tecniche qualificate, sono registrate dalla Corte dei conti e pubblicate sulla Gazzetta ufficiale.
Dunque, l’approccio seguito a suo tempo con l’istituzione del Cipe era molto lontano dallo specifico meccanismo di governance proposto inizialmente dal Governo per l’attuazione del Pnrr: un potere di tipo commissariale esterno ai ministeri, affidato a singoli responsabili di ogni missione. Al momento non sappiamo quale sarà la decisione definitiva sulla struttura che gestirà le risorse del Pnrr, ma un’eventuale duplicazione con il Cipe appare ingiustificata. Tuttavia, se considerato utile, sarebbe necessario il suo rafforzamento con il Comitato interministeriale per gli affari europei e altri esperti.
In terzo luogo, una questione che emerge con forza dal Next Generation Eu è lo scarto tra i meccanismi della Programmazione comunitaria nel suo complesso e quella italiana. Quest’ultima è stata sostanzialmente abbandonata dopo il Progetto ’80 ed è riemersa con la stagione della Programmazione negoziata (con un ruolo attivo del Cipe) nella seconda metà degli anni 90, che ha attivato numerosi strumenti, ad esempio i Patti territoriali, i cui esiti hanno manifestato luci e ombre. Negli ultimi anni, l’attenzione è stata concentrata sui Documenti di programmazione economico-finanziaria (Dpef) e sulla Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef) relativa all’aggiornamento delle previsione di economiche e finanziarie, che costituisce la cornice del processo di formazione delle Leggi di bilancio. Questi Documenti presentano il rischio di risultare adempimenti formali, in quanto sono fondati su previsioni spesso ottimistiche e disattese e soprattutto privi di collegamenti con la Programmazione economica. Anzi, di recente è emersa con forza una sostanziale indecisione programmatica.
Questa situazione risulta ancor più negativa, in quanto, per fare un esempio, alla fine degli anni ’70 numerosi studi hanno evidenziato i vantaggi nel passaggio dall’ottica annuale a quella poliennale della spesa pubblica. La definizione di un quadro pluriennale consente di costruire e realizzare programmi di lungo periodo e di impostare in modo credibile patti politici e sociali del tipo sacrifici oggi e benefici domani. In altre parole, le decisioni pluriennali (ora determinate dall’Ue) costituiscono un vincolo per i decisori futuri, (governi centrali e regionali, ministri e ministeri). Una scelta importante in un Paese con forte instabilità politica e dei governi.
Anche per queste ragioni era e resta utile discutere nel merito del Pnrr, sul cosa fare, magari con una visione economico-territoriale, mentre per il come fare, la governance, si dovrebbe utilizzare una struttura qualificata come il Cipe piuttosto che costruire nuovi apparati per gestire il potere di spesa. A ben vedere, è questo che ci chiede l’Ue: utilizzare la leva degli investimenti pubblici per costruire il futuro, senza guardare al presente e al breve periodo.