In questi giorni si è letto un florilegio di commenti e stroncature sulla lista dei 587 progetti candidati al Recovery fund che sono atterrati sulla scrivania del Comitato interministeriale per gli affari europei, presieduto da Giuseppe Conte, incaricato della cernita della valanga di proposte. Un documento preliminare, certamente, ma che appare come un calderone di tutto quel che le direzioni dei ministeri avevano già predisposto negli anni e che non aveva copertura. E che per oltre due terzi non la troverà neppure ora, visto che totalizza 677 miliardi di euro contro i 209 stanziati da Bruxelles.



Quello che sorprende di questa lista dei desideri è la fatica a ritrovare una direzione strategica verso la quale orientare il futuro e modellare la società nella quale i nostri figli e nipoti vivranno e saranno chiamati a pagare i debiti contratti con questi fondi a prestito. Passi che tra le infrastrutture di domani troviamo la costruzione di un acquario nell’area portuale di Taranto, la giustizia predittiva attraverso l’utilizzo di modelli di Intelligenza Artificiale per preconizzare l’esito di un procedimento giudiziario oppure la valorizzazione dei borghi come destinazione turistica con la promozione mirata agli stranieri italo-discendenti senza fare i conti con la loro limitata capacità ricettiva e conseguente contenuta generazione di valore aggiunto. Questo è tutto lo sforzo creativo progettuale sul turismo, un settore che vale il 13% del Pil?



Salta in parte anche il filtro delle linee guida definite nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) presentato la scorsa settimana da palazzo Chigi: un quarto dei progetti presentati non è ascrivibile a nessuna macroarea. Sono solo un riempitivo della lista aggregata degli uffici?

Infine, e soprattutto, sorprende che non vi sia un progetto, dicasi uno, sulla promozione del Terzo settore e dell’impresa sociale. Fatta eccezione per i 430 milioni richiesti dal ministero per lo Sport e le Politiche giovanili per potenziare il Servizio civile universale con la stabilizzazione di 50mila posti annui, è completamente assente la visione del principio della sussidiarietà. Un principio che trova fondamento costituzionale nell’art. 118, nel favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, nello svolgimento di attività di interesse generale. Questa mancanza è tanto più stridente che a turno i politici hanno ripetuto come un mantra che la ripartenza ha bisogno di un patto rifondante e generativo tra pubblico, privato e Terzo settore, fra forze sociali e forze produttive.



Si può immaginare una nuova stagione di politiche economiche e sociali ignorando la forza propulsiva delle best practices del settore “Cenerentola” che però pesa il 5% del Pil, conta un milione di occupati e 6 milioni di utenti? Tanto più che il vasto programma nazionale mette proprio green e social tra i pilastri della ripresa e della resilienza. Intanto però, sono passati 4 anni dal varo dalla Riforma del Terzo settore e la legge 106/2016 è rimasta lettera morta: mancano praticamente ancora quasi tutti i provvedimenti attuativi (finalmente in questi giorni è stato introdotto il Registro Unico degli Enti del Terzo Settore).