Gli anni che verranno saranno decisivi per l’economia e la società italiana. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ne è la cartina di tornasole. L’Italia è una nazione a tardiva unificazione e a tardiva industrializzazione che ha potuto superare, negli anni che vanno dall’inizio del Novecento alla sua seconda metà (sino agli anni Settanta), quella stessa arretratezza grazie a taluni fattori sostitutivi della crescita che oggi non si presentano più come allora. 



Per l’Italia questi “fattori sostitutivi” nei primi decenni dell’industrializzazione furono le rimesse degli emigranti – che resero sostenibile il debito estero – e il capitalismo manchesteriano del Nord Italia, a cui si unì precocemente il capitalismo monopolistico di Stato degli investimenti strutturali; e più di tutto lo furono le grandi banche miste franco-tedesche, le banche d’affari angloamericane e le ben diverse banche cooperative che – con i loro finanziamenti alle imprese e il sostegno alle comunità – si affiancavano all’autofinanziamento imprenditoriale. 



Dopo il primo dopoguerra, la crisi del 1929 fu superata grazie alla creazione di uno degli Stati imprenditori più potenti e lungimiranti al mondo – tanto industriale quanto finanziario – e dal prestito statunitense. Quel prestito si trasformò nel secondo dopoguerra nell’intervento a sostegno della domanda e dell’industrializzazione: fu il Piano Marshall e fu l’economia mista con le grandi imprese a partecipazione statale e le infrastrutture pubbliche “fanfaniane”, volano della crescita. Quando questa quando perse il suo slancio dopo la prima congiuntura della metà degli anni Sessanta, ci si accasciò sul ricorso alla svalutazione monetaria. Così si disaffezionarono le industrie private all’innovazione tecnologica e agli alti salari, salvo per quel comparto manifatturiero medio e piccolo (“manchesteriano”) che oggi costituisce l’unico fattore di propulsione rimasto in Italia e forse proprio perciò continuamente negletto dalle politiche pubbliche… italiche e dell’Ue. 



Con Maastricht ci fu l’inserzione del Bel Paese nel capitalismo estrattivo franco-tedesco a moneta unica governato dai trattati e da un ircocervo (la Bce) che tutto è meno che una banca centrale e che altro non fa che sostenere le banche con acquisti di titoli di stato nazionali e regole di patrimonializzazione che aumentano il costo del capitale e riducono la redditività industriale dell’istituto bancario, con tassi tendenti allo zero che alimentano la deflazione secolare come un mantice oppiaceo.

L’italico meccanismo già stremato dalla crisi del 2007-2008 e dalla deflazione secolare è ora stato colpito dalla pandemia, che ha scosso profondamente anche la cupola del capitalismo estrattivo (vedi il pericolo del blocco delle catene di fornitura alimentate dal triangolo lombardoveneto-emilianoromagnolo-adriatico) e ha imposto una moderazione dell’asimmetria insita nei trattati e a cui ora si fa rimedio con la mutualizzazione del debito, creando special purpose entities per procacciare finanziamenti a basso tasso da riversarsi dal mercato finanziario mondiale sulle economie nazionali, secondo le regole dei trattati temporaneamente sospese: è il Pnrr fondato su prestiti e fondi di sostegno che ogni Governo nazionale deve sottoporre al governo dall’alto dell’Ue, che fissa regole e possiede gli strumenti per misurare i gradi di attuazione delle stesse: senza diritto, senza legittimità che non derivi dalle sole credenze nel libero mercato e nella razionalità burocratica di un neo-cameralismo che decide la misurazione dei chicchi d’uva e ora giunge anche al voltaggio dei sistemi elettrici in funzione decarbonizzante. Non il meccanismo di governo che avremmo voluto con una Costituzione europea, ma un governo tecnocratico non di diritto, ma di fatto che non può produrre “buon governo”, perché è solo con la democrazia e la rappresentanza che si governa la complessità.

Di qui, dunque, i Piani di Resilienza che i governi nazionali si apprestano a varare con atteggiamenti diversi. Spicca quello del Portogallo, che, pur bisognoso di investimenti, sceglie di puntare su quelli denominati “sostegni” e rifiuta di far ricorso a quei fondi denominati come “prestiti”. Gli Stati nazionali vanno a questo appuntamento in ordine sparso. I denari che debbono giungere non sfuggono, infatti alle regole, non solo dei trattati (di qui il ricorso alle Corti costituzionali nelle nazioni che non vogliono la mutualizzazione del debito), ma anche a quelle del rapporto tra crescita del debito e crescita del Pil e dell’occupazione. L’Italia appronta finalmente un piano certamente negoziato anzitempo con la cuspide Ue a cui i diversi gruppi di influenza presenti oggi nel Governo fanno riferimento. Ora la credibilità di Draghi pare rendere tutto più sostenibile nel confronto tanto con i francesi e gli Usa e rende meno presente la pressione tedesco-cinese straordinariamente attiva con il precedente Governo. Ma i problemi rimangono: si tratta di un piano complesso che si fonda sulla sinergia che dovrebbe crearsi tra riforma della Pubblica amministrazione, ricorso al debito per investimenti soprattutto nella transizione energetica e digitale e in quella educativa. Ma il sostegno alle imprese è incerto e non fondato su investimenti in capitale fisso tali da mettere in moto un’ondata che provochi un tasso di crescita più forte del tasso di indebitamento. Solo così, infatti, si potrebbe dar vita a una svolta per la nuova crescita italiana. Solo un aumento del tasso di profitto e della massa salariale può invertire la rotta.

Se la rotta non s’inverte il risparmio continuerà a non fluire verso gli investimenti produttivi ma verso la rendita. Solo un grande piano nazionale di opere pubbliche e di edilizia sociale può invertire la rotta. La transizione energetica su cui si punta, invece, se non s’invera con i caratteri dell’economia circolare rischia di farci sprofondare ancor più nella disoccupazione e quindi di aumentare l’esercito industriale di riserva e ancor più profondamente la deflazione. 

Piuttosto che agire con una saggia riproposizione dello Stato imprenditore nello stock di capitale fisso che alimenti lavoro di fornitura e di investimenti privati in servizi essenziali per la libera impresa, ci si attarda (anziché inseguire folli ricette di rete unica delle telecomunicazioni) nella presenza dello Stato tout court nel capitale di imprese decotte, disperdendo risorse altrimenti meglio impiegabili in imprese dinamiche, che pure esistono ma non hanno accesso ai tavoli della decisione e della compensazione e ponderazione degli interessi che si attuano nella sfera della decisione politica. E occorrerebbero interventi più decisi sul corpo stesso dello Stato: con la riforma radicale del codice degli appalti, per esempio, e il ritorno alla Protezione civile modello Zamberletti-Bertolaso, la riforma della giustizia con la separazione delle carriere e non con le confuse misure cosmetiche annunciate.

In ogni caso tutto dipenderà dalla capacità di utilizzare le risorse tenendo conto che il problema continuerà a essere, per l’Italia, la disoccupazione ormai strutturale di tanta parte della popolazione potenzialmente attiva e della tardiva disposizione della gioventù al lavoro tanto dipendente quanto autonomo.

Il Pnrr non può essere neppure l’avvio alla risoluzione dei mali d’Italia (il percorso durerà anni) senza una rivoluzione morale e senza quel tanto di fantasia e di indipendenza di giudizio che solo possono farci ritornare alla crescita fondata sullo sviluppo integrale. Forse è dei poeti che abbiamo bisogno.

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