Ieri l’Istat ha diffuso il “conto trimestrale delle amministrazioni pubbliche, reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società” del primo trimestre 2023. La pubblicazione offre alcuni dati utili a partire dall’aumento del potere d’acquisto delle famiglie, salito del 3,1%, rispetto al trimestre precedente. L’Istat dice molto altro. Spiega che l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche rispetto al Pil nel primo trimestre è stato del -12,1%; è il secondo peggior saldo primario dal 1999 dietro solo al dato del 2021. La politica fiscale è stata ancora espansiva. La pressione fiscale nello stesso trimestre è stata del 37%, in diminuzione dello 0,9%, rispetto al primo trimestre del 2022.
La propensione al risparmio delle famiglie è salita di 2,3 percentuali, al 7,6%, rispetto al quarto trimestre 2023. Soprattutto la quota di profitto delle società non finanziarie, al 43,7% nel primo trimestre, ha fatto registrare il dato più alto dal 2010 per il primo trimestre. Riassumendo: aumenta il potere d’acquisto delle famiglie, aumenta il tasso di profitto delle imprese e lo Stato italiano stampa il secondo deficit più alto del primo trimestre, dopo il 2021, degli ultimi 24 anni.
Questi dati, ci sembra, tutto dipingono tranne che un’inflazione da “sola offerta”; la domanda, evidentemente, è ancora forte e non potrebbe essere altrimenti visti gli effetti di una politica monetaria ultra accomodante per molti trimestri, dopo i lockdown, e quelli, che ancora durano, di una politica fiscale espansiva. La propensione al risparmio delle famiglie italiane dal primo trimestre 2020 fino a tutto il 2021 è stata quasi il doppio della media dei dieci anni precedenti. Sono i risparmi accumulati, per importi molto ingenti, dalle famiglie che non potevano e non volevano spendere, ma continuavano a incassare gli stipendi e a prendere “bonus”. Aggiungiamo che l’incremento dei tassi di interesse mette nelle tasche di molti italiani cedole che non si vedevano dal 2013 senza, però, che si respiri quel clima di incertezza e di preoccupazione causato dalla crisi dei debiti sovrani.
Di fronte a questi dati si può chiedere alle banche centrali di fermare l’incremento dei tassi solo nella convinzione che ci sia una crisi imminente che fermi l’inflazione. Il problema, nel contesto attuale, è tutto spostato sulla crescita dei salari perché finite le politiche monetarie espansive, finiti i deficit fuori scala e finiti i risparmi eccezionalmente accumulati nel 2020 e nel 2021 quello che rimane sono prezzi molto più alti di due anni fa. L’inflazione cumulata negli alimentari, forse la più odiosa di tutte, è di oltre il 20%. I dati sui profitti delle imprese, di molti settori, ce lo conferma l’Istat ieri, avrebbero permesso un incremento dei salari maggiore. Sappiamo per certo, sono dati fattuali, che interi settori industriali nel 2022 e nei primi trimestri del 2023 hanno registrato i margini di profitto più alti degli ultimi due decenni, il settore automotive per esempio ma non solo.
Ci focalizziamo sul settore alimentare non per caso. In Francia, per esempio, i consumi per alimentari dai primi mesi del 2021 sono crollati di oltre il 20%. Le famiglie risparmiano sul cibo, che fino a quel momento era di qualità e abbondante, sotto lo shock dell’esplosione dei prezzi. È una revisione della spesa che riguarda sia le quantità che la qualità. Questi dati dovrebbero far paura ai Governi perché se oggi a pagare dazio sono principalmente le fasce di reddito più basse domani, se i salari non aumentano proporzionalmente, il problema potrebbe riguardate una percentuale maggiore delle famiglie.
Forse non è un caso che la rabbia sociale esploda incontrollata proprio nei quartieri più poveri. Le sfide poste ai Governi in questa fase sono basilari: cibo ed energia. Le soluzioni ideologiche rischiano di scontrarsi sulle pance vuote. Le banche centrali sono un attore primario, ma le politiche industriali, energetiche, sociali e fiscali, fino a prova contraria, le decidono i Governi. La Bce può anche fermare i rialzi, ma il rischio che i salari non tengano il passo dei costi, anche alimentari, rimane.
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