L’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) è stato introdotto con un decreto legislativo, il 109 del 31 marzo 1998, per la finalità di stimare la condizione economica delle famiglie (reddito, patrimonio mobiliare e immobiliare) da utilizzare per selezionare l’accesso alle prestazioni pubbliche di carattere sociale, sociosanitarie o assistenziali, erogate dallo Stato, dagli enti pubblici e dalle amministrazioni locali. Con l’esclusione delle prestazioni di carattere previdenziale, comprese le integrazioni dei minimi, che continuano a essere regolate da norme specifiche.
L’intento del legislatore era quello di offrire al complesso delle amministrazioni una serie di criteri omogenei per la valutazione della situazione economica delle famiglie e di precostituire delle linee guida per la promozione e la gestione degli interventi di carattere sociale e assistenziale rivolti a sostenere, tramite servizi, contributi diretti o l’esenzione dalle tariffe, per le famiglie meno abbienti.
Tale impostazione è stata rafforzata nel 2010 dalla previsione di istituire il Casellario dell’assistenza presso l’Inps, nel ruolo di banca dati e di monitoraggio del complesso delle prestazioni e degli interventi erogati dalle varie amministrazioni pubbliche; e da ulteriori provvedimenti normativi, in particolare quelli entrati in vigore nel 2015 in coincidenza del lancio del Reddito di inclusione, per l’intento di affinare gli indicatori per la valutazione del reddito e di rafforzare i sistemi di controllo.
Il criterio di calcolo dell’Isee operato con la Dichiarazione sostitutiva unica (Dsu), redatta in via diretta da chi richiede le prestazioni o tramite gli uffici degli enti erogatori, dall’Inps, dai Caf e dai Patronati, è abbastanza complesso. Si avvale delle dichiarazioni dei redditi rilasciate dall’Agenzia delle entrate e dall’Inps per tutti i componenti del nucleo familiare, e delle autodichiarazioni documentate dei richiedenti per valutare il patrimonio immobiliare e mobiliare (conto corrente, titoli posseduti, rendite). Il valore ricavato viene successivamente ridotto sulla base di una scala di equivalenza stimata sul numero e sulle caratteristiche dei componenti del nucleo familiare.
In questo modo, le attestazioni dell’Isee sono diventate una sorta di patente per l’accesso alle prestazioni sociali, e come tali entrate anche nel linguaggio corrente per via del rapido ampliamento del loro utilizzo con l’introduzione del Reddito di cittadinanza, e la proliferazione degli interventi di sostegno al reddito promossi dalle amministrazioni pubbliche nel corso della pandemia Covid. Per tali scopi, nel corso del 2020 sono state rilasciate ben 9,5 milioni di dichiarazioni Isee, con un incremento del 20% rispetto all’anno precedente.
L’utilizzo esponenziale degli indicatori Isee, e degli altri interventi comunque condizionati ai livelli del reddito individuale o familiare, sta comportando effetti distorsivi per le politiche di redistribuzione del reddito, per quelle fiscali e sui comportamenti dei contribuenti e dei beneficiari delle prestazioni.
La condivisione dei criteri di valutazione delle condizioni economiche delle famiglie non ha impedito, ma all’opposto persino legittimato, l’utilizzo dell’Isee per stabilire di volta in volta soglie di reddito sulla base di criteri arbitrari, per selezionare i beneficiari delle singole prestazioni (in genere per contenere le coperture di spesa delle singole amministrazioni). Nell’anno del Covid sono state utilizzate, oltre che per i precedenti dei bonus asilo e bebè e del Reddito di cittadinanza, per quello di emergenza, per le integrazioni al reddito degli autonomi e dei professionisti motivate dal fermo delle attività, per la sospensione degli adempimenti fiscali e dei pagamenti di affitti e tariffe, per l’introduzione dell’assegno unico per i minori, per i bonus auto e vacanze, per condonare le multe e i mancati pagamenti fiscali fino al 2010. Senza citare quanto hanno promosso per i medesimi scopi le Regioni e gli Enti locali. In buona sostanza si sono progressivamente consolidati dei canali paralleli di redistribuzione del reddito, aggiuntivi alle imposte progressive, privi di coordinamento, e fra loro sovrapposti. Un disordine favorito anche dal mancato decollo del Casellario per l’assistenza e dall’assenza di sistemi integrati delle informazioni sui redditi e sui patrimoni per verificare preventivamente la congruità delle domande, e gli esiti degli interventi.
L’impatto sul sistema fiscale, e sulla reale efficacia della funzione redistributiva del sistema delle aliquote progressive, è stato rilevante. Sulla congruità delle dichiarazioni Isee pesa inevitabilmente la componente dell’evasione fiscale legata alle sotto dichiarazioni e alle prestazioni sommerse. Quella che, per motivi facilmente comprensibili, produce il maggiore impatto sulla quota delle dichiarazioni Isee di valore più contenuto (il 43% delle quali, equivalenti a circa 4 milioni di nuclei familiari, risulta al di sotto dei 7,5 mila euro annui, mentre solo il 12%, circa 1,3 milioni di famiglie, è al di sopra dei 25 mila euro).
Il limite di reddito per accedere alle prestazioni sociali genera per i cittadini esclusi la perdita di prestazioni a fronte di una maggiore imposizione fiscale. In molti casi anche il marginale superamento delle soglie Isee per poche centinaia di euro può comportare delle perdite superiori ai guadagni lordi dichiarati (un effetto simile alla perdita degli 80 euro mensili del bonus Renzi per coloro che superavano i 26 mila euro l’anno).
Tutto questo, ovviamente, produce una sostanziale alterazione del principio di progressività delle imposte tra cittadini, una discriminazione per quelli che pagano correttamente le imposte e alimenta una serie di comportamenti indesiderati dei contribuenti e dei potenziali beneficiari delle prestazioni. Trovare il modo per ridurre il valore economico del reddito familiare è diventato un esercizio di massa, che incentiva le prestazioni sommerse e a utilizzare tutti i mezzi più o meno legittimi per contenere il valore delle autodichiarazioni sostitutive per poter beneficiare delle prestazioni (ad esempio separando le residenze tra parenti di primo grado in possesso di redditi, aumentando le persone a carico prive di reddito, sottovalutando gli importi medi dei depositi bancari, l’utilizzo di prestanome per l’intestazione dei mezzi di trasporto e degli immobili).
Non deve stupire il fatto che nelle indagini sviluppate a campione dalla Guardia di finanza, su incarico delle singole amministrazioni, il numero delle dichiarazioni Isee che non vengono ritenute congrue sia mediamente superiore al 60%. Le possibilità di controllo effettivo di queste elusioni ed evasioni di massa sono estremamente ridotte per la carenza delle informazioni integrate tra amministrazioni e per i costi della gestione dei contenziosi.
Non va dimenticato che il nostro è il Paese dove il 43% dei contribuenti non versa nemmeno un euro all’erario, che ha registrato una crescita delle spese per l’assistenza dai 74 ai 114 miliardi anno nel corso del decennio precedente alla crisi Covid, e il contemporaneo raddoppio del numero delle persone in condizioni di povertà assoluta.
Come è potuto accadere tutto questo? Il vuoto rappresentato dalle mancate riforme del welfare per la funzione primaria di prevenire i rischi di impoverimento e rendere sostenibili le prestazioni pubbliche con sistemi adeguati di politiche di sostegno alle famiglie per la natalità e delle politiche del lavoro per aumentare l’occupabilità delle persone, è stato riempito da una miriade di provvedimenti finalizzati a redistribuire il reddito per contrastare la povertà. Ma che sono serviti di fatto a esaltare le derive corporative e populiste, che hanno provocato una dispersione delle risorse in mille rivoli, ottenendo il risultato opposto. Soprattutto hanno minato il consenso per poter fare delle riforme incisive, dato che la massa critica delle persone che lavorano in Italia, e che contribuiscono attivamente a finanziare la spesa pubblica, risulta inferiore alla popolazione adulta che beneficia delle prestazioni. Un caso unico nel panorama dei Paesi sviluppati e che coincide con l’analogo primato negativo del minore tasso di occupazione delle persone in età di lavoro.
Un esempio clamoroso è dimostrato dall’introduzione dell’assegno unico per i figli a carico, avviata per le famiglie fiscalmente incapienti e per quelle dei lavoratori autonomi, con un reddito Isee inferiore ai 50 mila euro l’anno. Con questa soglia, la messa a regime della riforma prevista per il 2022 anche per le famiglie dei lavoratori dipendenti, i soli a pagare i contributi per gli assegni familiari, potrebbe comportare una riduzione dei benefici rispetto al valore delle prestazioni attualmente in vigore (le detrazioni fiscali per i minori a carico e gli assegni familiari), per una parte significativa degli interessati.
Il fallimento di queste politiche per la finalità di favorire la crescita economica, l’aumento della popolazione attiva, e una più efficace distribuzione del reddito, è conclamato dai numeri. Nonostante questo la deriva assistenzialista caratterizzata dalla storica difesa dei privilegi di tipo corporativo e dalle istanze populiste degli anni recenti, ben rappresentate dal programma delle pensioni Quota 100 e del Reddito di cittadinanza, sembra tutt’altro che esaurita. Ne sono la riprova il costante aumento dei provvedimenti parlamentari erogati con l’utilizzo delle soglie Isee, le proposte di finanziare la riduzione delle aliquote Irpef per i redditi medio bassi limitando le detrazioni per quelli medio alti, e di estendere i sostegni al reddito per la carenza di lavoro e le indennità di disoccupazione, a destra e manca, senza adeguate contribuzioni e trasferendo gli oneri sul bilancio statale.
Tutto questo, ammesso che sia equo, contribuirà ad aumentare la popolazione attiva e la crescita del reddito o ad aumentare la massa della popolazione assistita? Lascio la risposta a coloro che hanno avuto la pazienza di leggere l’articolo.
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