Sono le 8 e 30 di mattina del 20 maggio di vent’anni fa, quando come sempre Massimo D’Antona esce dalla sua abitazione romana, dove vive con la moglie e la figlia. Si dirige verso il suo ufficio. Poco lontano è parcheggiato un furgone con i vetri posteriori coperti con una pellicola bianca. Dentro, ci sono i suoi assassini. Escono a viso scoperto, uno di loro ha in mano una P38 e gli spara alle spalle. D’Antona prova a fuggire, ma le pallottole hanno squarciato il petto all’altezza del cuore. Prova a chiedere aiuto a un passante. Portato al Policlinico Umberto I, il giurista e docente universitario muore dopo circa un’ora. Era consulente del ministero del Lavoro, dove era impegnato a studiare una possibile riforma. A ucciderlo, militanti delle “Nuove” Brigate Rosse, che come i loro cugini degli anni 70 vogliono eliminare coloro che si impegnano in prima persona per i lavoratori. Tra di loro Federica Saraceni, assolta in primo grado dall’accusa di concorso in omicidio e condannata a 4 anni e otto mesi per banda armata. Nel 2008 la Corte d’Assise di appello ribalta la sentenza condannandola in via definitiva a 21 anni e sei mesi di reclusione per concorso in omicidio. In aula, la donna si dissocia dai terroristi e da quanto fatto. Nel 2009 ottiene la detenzione domiciliare. Vive con i suoi due figli. Federica Saraceni si trova sotto la cosiddetta soglia di povertà: per questo, da agosto, percepisce un assegno di 623 euro al mese. Protestano i parenti delle vittime del terrorismo, ma in base alla legge la Saraceni è anche in attesa della chiamata di un navigator con un’offerta di lavoro. E per l’Inps è tutto regolare: “I requisiti ci sono. La norma prevede che se la persona ha ricevuto una condanna nei dieci anni precedenti c’è il blocco. Lei l’ha ricevuta 12 anni fa”.
Professor Ichino, i parenti delle vittime del terrorismo protestano contro questa situazione: secondo lei siamo davanti a un caso limite, cioè legato a un crimine molto particolare o certi crimini come quelli del terrorismo non vanno mai dimenticati e di conseguenza non perdonati?
Probabilmente c’è un difetto nella disciplina del sussidio, se essa accolla alla collettività un onere maggiore di quello che il diritto civile accolla al congiunto stretto, come in questo caso il padre della ex terrorista. Il quale è certamente in grado di assicurarle un congruo sostegno economico.
Il padre di Federica Saraceni, l’ex magistrato ed ex deputato Ds Luigi Saraceni, dice che è “un attacco politico al reddito di cittadinanza. La sinistra ci ripensi, e non lo elimini, perché è una legge giusta”. Che ne pensa di queste parole e che ne pensa lei del reddito di cittadinanza?
Assicurare un sostegno a chi è in situazione di povertà è sacrosanto. Questa legge ha però due difetti fondamentali. Innanzitutto il nome, che corrisponde al contenuto della promessa iniziale fatta dal M5s agli elettori: un reddito cui chiunque avrebbe avuto diritto per il solo fatto di essere cittadino, cioè quello che i politologi chiamano basic income, e che esiste soltanto in Alaska, mentre quello che è stato fatto è stato soltanto di estendere il campo di applicazione del Reddito di inclusione istituito nella passata legislatura e aumentarne l’importo.
E il secondo difetto?
La pretesa di fare di questa misura un canale di accesso dei disoccupati al tessuto produttivo, una vera e propria “politica attiva del lavoro”, quando in realtà manca del tutto l’attrezzatura adatta per un compito titanico come questo. L’idea che questo difetto potesse essere superato con l’imbarcata per il ruolo di “navigator” di migliaia di giovani disoccupati, per lo più senza arte né parte, soprattutto senza alcuna conoscenza del mercato del lavoro e del tessuto produttivo, è pura demagogia. Si sta sprecando, in questo modo, una grande quantità di denaro che avrebbe potuto e dovuto essere spesa molto meglio per migliorare la rete dei servizi per l’impiego.
Luigi Saraceni dice anche che dopo 15 anni di domiciliari “nessuno vuole darle un lavoro”. Cosa dovrebbe fare lo Stato per queste persone, sostenerle nonostante il crimine commesso in passato?
Il problema del lavoro di chi è soggetto a pene restrittive della libertà personale è antico e non facile da risolvere; però non impossibile. Qualche cosa è stato fatto, ma si potrebbe fare molto di più.
A vent’anni dall’omicidio di Massimo D’Antona, ritiene che la sua figura sia degnamente ricordata o se ne sta invece perdendo la memoria?
Tra i giuslavoristi e gli economisti del lavoro la memoria di Massimo D’Antona è sempre vivissima, come quella dei molti altri di loro colpiti dal terrorismo: da Gino Giugni a Marco Biagi, da Ezio Tarantelli a Filippo Peschiera. Entrambe le comunità accademiche sono vissute per un quarto di secolo sotto la minaccia diretta di questi gruppi armati, il cui scopo era essenzialmente di intimidirle, di impedire il dibattito aperto sui problemi del mercato del lavoro.
Quale pensa sia l’insegnamento più importante che viene dalla persona e dall’opera di Massimo D’Antona?
L’insegnamento più importante che ci ha lasciato la sua persona è la mitezza e la non faziosità. L’insegnamento più importante che ci ha lasciato la sua opera è forse l’affermazione contenuta in uno dei suoi ultimi scritti, secondo cui il diritto al lavoro non riguarda l’avere, ma l’essere della persona.
(Paolo Vites)