Esiste una bella storia, raccontata da molti politici: dato che in Italia mancano milioni di posti di lavoro qualificati, prendiamo questo esercito di “svantaggiati” percettori di Reddito di cittadinanza, lo formiamo e lo piazziamo nel mercato del lavoro; questa è una “storia fantastica”, come il film di fantasia del 1987.
La verità è che il percorso verso il lavoro appare molto più accidentato e complesso. Innanzitutto dobbiamo subito “sdoganare” questa narrazione, il percorso è accidentato perché costituito da una carriera discontinua, dall’entrare e uscire dall’assistenza e quindi è molto difficile per la maggior parte dei beneficiari del Rdc uscire dalla trappola della povertà e una volta usciti c’è un fortissimo rischio di rientrarci.
Tra i beneficiari del Reddito di cittadinanza indirizzati ai servizi per il lavoro che sono stati circa un milione, solo 90mila hanno instaurato un contratto di lavoro a tempo indeterminato (a spanne il 10%) e tra questi solo il 3-4% svolge professioni medio-alte, il resto è finito nei cosiddetti bad jobs, prevalentemente professioni non qualificate.
A ciò aggiungiamo che quasi la metà di quel milione non ha mai lavorato, che il titolo di studio prevalente (oltre il 70%) tra i non occupati è al massimo la scuola media e che il 60% dei soggetti presi in considerazione corrisponde a una persona adulta (l’età media è tra i 35-37anni) e quindi non si tratta di giovani. Permettetemi, solo un “folle” potrebbe mai pensare di associare i dati Excelsior che spesso sono analisi previsive sul desiderio delle imprese con questo tipo di target. Le imprese vogliono generalmente giovani, ben formati, che parlino inglese e soprattutto motivati ed è impensabile trovarli tra i non occupati del Reddito di cittadinanza, dove neppure il 3% è in possesso di una laurea.
Qualcuno propone che questo target di beneficiari del Reddito di cittadinanza dovrebbe essere indirizzato all’assistenza sociale e che si sono confuse le politiche attive con quelle sociali. In parte questo ragionamento è corretto, ma la questione è molto più complessa. Innanzitutto perché l’intervento dei Comuni nella gestione dei beneficiari del Reddito di cittadinanza è stata fino a questo momento fallimentare. Da quando è stato introdotto il Reddito di Cittadinanza sono stati attivati circa 4000 Puc (Progetti utili alla collettività) che corrispondo a spanne a 80mila persone sul milione potenziale. In altri termini, spostando la centralità della gestione dai Centri per l’impiego ai Servizi sociali, in assenza di una riforma organica e adeguate risorse, la situazione sarebbe stata praticamente la stessa. A ciò si aggiunge che gestire un programma di inserimento sociale per quasi un milione di persone è qualcosa che chiede una riforma strutturale e forse un decennio per la piena attuazione.
Senza essere “manichei” dobbiamo chiederci cosa fare, come poter collegare le politiche attive al Reddito di cittadinanza. Ritengo che l’unica strada è un percorso “ibrido” volto prima a mettere in “careggiata” queste persone e poi a intervenire con politiche del lavoro che diano traiettorie per la transizione verso il lavoro. Questo è possibile farlo costruendo percorsi analoghi a quelli già visti attraverso il collocamento mirato, utilizzando anche il Terzo settore che già opera verso target di questo tipo per sviluppare progetti di alfabetizzazione di base (non solo digitale), perché uno degli scogli maggiori e che una parte rilevante di queste persone ha difficoltà semplicemente a esprimersi in un italiano corretto, utilizzando i termini appropriati. Solo successivamente si potrà pensare a un percorso verso l’inserimento occupazionale, anche attraverso work experience e/o job creation da parte del pubblico.
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