L’intesa sottoscritta presso il ministero dello Sviluppo economico tra il ministro del Lavoro e 16 regioni italiane (mancano ancora all’appello Lombardia, Campania, Basilicata e le due province autonome di Trento e Bolzano) sbocca le assunzioni dei navigator da parte di Anpal servizi, l’agenzia nazionale incaricata di coordinare l’intervento dei programmi dedicati all’inserimento lavorativo dei percettori del reddito di cittadinanza. Una novità certamente positiva che consentirà, sia pur con qualche mese di ritardo, di dare attuazione concreta al dispositivo legislativo che prevede che i disoccupati percettori del sussidio debbano esser presi in carico dai servizi per l’impiego e siano a loro volta tenuti offrire la disponibilità per nuove proposte lavorative.



L’intervento rivolto al potenziamento dei servizi per l’impiego, propagandato dal Governo come il più grande programma di politica attiva del lavoro intrapreso in Italia, in effetti mobilita un rilevante importo di risorse finanziarie destinate particolarmente alle assunzioni di nuovo personale dei servizi per l’impiego da parte delle regioni: oltre 5.000 persone tra stabilizzazioni del personale in carico e nuovi concorsi.



Tuttavia l’evoluzione di questo intervento, che sulla carta dovrebbe essere sviluppato nell’ambito di un programma nazionale pluriennale condiviso tra Stato e Regioni, trascina una serie di equivoci non risolti e che rischiano di pregiudicarne l’efficacia. Tali equivoci sono in buona parte attribuibili a due errori di fondo contenuti nel decreto originale del reddito di cittadinanza, varato nel gennaio 2019.

Il primo errore è stato quello di identificare gli interventi di politica attiva del lavoro con quelli finalizzati a contrastare la povertà dei nuclei familiari. Una scelta che ha comportato una distrazione delle risorse già dedicate all’inserimento lavorativo dell’insieme delle persone in cerca di lavoro. Com’era ampiamente prevedibile, il potenziale di intervento in favore dei percettori del sussidio potenzialmente occupabili, stimabili in meno di mezzo milione a regime, si sta rivelando ben al di sotto delle stime originali dei proponenti e comunque una platea di poco superiore al 10% delle persone potenzialmente interessate da interventi di politica attiva del lavoro: persone in cerca di lavoro con e senza sussidi, studenti coinvolti nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, persone diversamente abili.



Il secondo errore coincideva con il tentativo di centralizzare a livello statale la gestione dell’intervento e l’assunzione del personale per i servizi per l’impiego, i celebri navigator allora stimati in 6.000 unità, sottraendo alle regioni le competenze sulla materia attribuite dalla Costituzione. Tutto ciò ha comportato un inutile braccio di ferro con le regioni stesse, che ha riportato in capo a esse la gestione delle assunzioni per il personale dei servizi per l’impiego, lasciando all’Agenzia nazionale la responsabilità di assumere poco meno di 3.000 persone con un contratto di collaborazione a termine, con un profilo professionale incerto e subordinando la loro operatività alle condizioni stabilite dalle singole regioni con apposita convenzione.

Sulla carta i cosiddetti navigator, persone prive di specifica esperienza e necessitanti di un percorso di formazione, dovrebbero svolgere compiti di assistenza tecnica verso il personale dei servizi per l’impiego dipendenti delle regioni. Un profilo di attività che richiede elevate competenze e incompatibile con le caratteristiche del personale selezionato sulla base di quiz preconfezionati. Nel mentre la stessa Agenzia nazionale sta dismettendo circa 650 operatori con contratto a termine in possesso di quel profilo, avendo svolto questa attività nell’ambito dei programmi nazionali di politica attiva del lavoro. Un fatto che da solo dà evidenza della approssimazione culturale e organizzativa che fa da cornice all’attuazione del programma stesso.

Ed è proprio il divario tra l’entità delle risorse investite e l’improvvisazione programmatica e organizzativa che fa gridare vendetta. La scelta di investire sui servizi pubblici per l’impiego era l’occasione per far fare un salto di qualità alle nostre politiche attive del lavoro. Cosa assai diversa dall’assumere dipendenti pubblici.