Il Reddito di cittadinanza (Rdc) va riformato? La maggioranza delle forze politiche e degli esperti si pronuncia positivamente. Il dito viene puntato in particolare sullo scarso funzionamento delle politiche attive del lavoro, ammesso a denti stretti anche dall’ex ministro del Lavoro Di Maio che le aveva assimilate a una sorta di rivoluzione nel corso della presentazione pubblica del programma. Vito Crimi, a seguito dell’incontro con Mario Draghi, ha attribuito al Presidente del consiglio la volontà di potenziare lo strumento per la finalità di contrastare i livelli di povertà assoluta, destinata ad aumentare per le conseguenze economiche e sociali della pandemia. Va ricordato che per questo scopo il Parlamento ha già approvato con la Legge di bilancio 2021 lo stanziamento di circa 500 milioni di euro aggiuntivi per l’anno in corso, e di ulteriori 4 miliardi per i prossimi anni.



Verificheremo nei prossimi giorni quali saranno le vere intenzioni del Governo Draghi. Personalmente, alla luce delle analisi disponibili, non credo affatto che le criticità del provvedimento possano essere circoscritte all’ambito delle politiche attive del lavoro.

L’obiettivo del Rdc era quello di ridurre in modo significativo il numero dei 5 milioni di persone in condizione di povertà assoluta stimati dall’Istat per l’anno 2018. L’aggiornamento della indagine per l’anno 2019, coincidente con il primo anno di gestazione del Rdc, ne certifica la riduzione a 4,6 milioni. Per il medesimo periodo l’Osservatorio Inps per il monitoraggio delle prestazioni del reddito e delle pensioni di cittadinanza quantificava in 2,37 milioni il numero delle persone beneficiarie delle erogazioni in corso. Un numero superiore di 6 volte rispetto alle 400 mila fuoriuscite dalla condizione di povertà assoluta. Un divario notevole, pur tenendo conto che le erogazioni del sussidio erano partite dal mese di aprile.



Sono diverse le ragioni che possono motivare questo divario, in parte largamente preventivato dagli esperti. La prima legata alla differenza tra il metodo utilizzato dall’Istat per rilevare in numero delle persone in condizioni di povertà assoluta, la spesa familiare su un paniere di beni essenziali, e quello previsto dal legislatore e cioè il reddito e il patrimonio formalmente dichiarato. Quest’ultimo sconta inevitabilmente le conseguenze del volume dell’evasione fiscale, del lavoro sommerso e delle sottodichiarazioni (circa 180 miliardi di euro), e cioè il rischio utilizzare le risorse per sostenere delle persone povere solo per il fisco italiano. Il risultato è stato quello di una presentazione di 2,5 milioni di domande per un potenziale di beneficiari italiani superiore al numero delle persone in condizione di povertà assoluta stimate dall’Istat. Inoltre, il legislatore ha introdotto due limitazioni per l’accesso alle prestazioni. La prima riferita al requisito di avere la residenza in Italia da almeno 10 anni, che ha ridotto del 60% il numero degli immigrati potenzialmente beneficiari (dal 31% sul totale dei poveri al 12% dei beneficiari effettivi) e che ha escluso di conseguenza anche una rilevante quota dei minori a carico delle famiglie straniere. La seconda riguarda l’introduzione di un tetto massimo per gli assegni che ha penalizzato i nuclei familiari con più di due minori a carico, che rappresentano la fascia più esposta delle persone in condizioni di povertà assoluta. In sintesi, il modello adottato ha favorito l’accesso ai sussidi di un numero consistente di persone che non ne aveva diritto ed escluso o penalizzato una quota rilevante di quelle più povere.



Il dispositivo legislativo prevedeva inoltre una dettagliata serie di controlli delle domande e dei requisiti di accesso ai sussidi, tramite l’incrocio delle banche dati delle pubbliche amministrazioni (Agenzia delle entrate, catasto, motorizzazione civile, enti locali per la segnalazione delle prestazioni assistenziali per le medesime finalità), che non ha trovato attuazione. In buona sostanza, le prestazioni sono state erogate sulla base di autocertificazioni sui redditi e sul patrimonio da parte dei richiedenti, ovvero con le informazioni disponibili presso l’Inps. Solo nel novembre 2020, a 18 mesi dall’avvio, sono stati reperiti i pareri del Garante della privacy per il trattamento dei dati personali, per poter convenzioni con gli altri enti in causa. Nonostante le autocertificazioni, ben 620 mila domande sono risultate prive dei requisiti. Un numero che offre un’idea dell’assalto alla diligenza che si è verificato nel corso dei primi due anni di vigenza de provvedimento. Un fenomeno confermato anche nelle verifiche a campione operate dalla Guardia di finanza sui richiedenti che hanno ottenuto il Rdc.

Le politiche attive sono rimaste al palo, e non solo per l’assurda pretesa di affidare a degli improvvisati Navigator, privi di collocazione negli organici dei servizi per l’impiego di competenza delle regioni, il compito di inserire al lavoro la fascia dei disoccupati più difficilmente occupabili. Per questa finalità il legislatore è riuscito a prevedere l’obbligo per i datori di lavoro di assumerli a tempo indeterminato, e con salari mensili non inferiori a 858 euro, come condizione per accedere agli incentivi per le assunzioni (in pratica escludendo l’utilizzo dei rapporti di lavoro a termine e a part-time). E persino di ai beneficiari del Rdc di rifiutare due offerte a tempo indeterminato prima di essere sanzionati con la perdita del sussidio.

Il monitoraggio svolto recentemente dall’Anpal sulle iniziative di politica attiva rivolte ai beneficiari del Reddito di cittadinanza in età di lavoro (circa 1,05 milioni), descrive le attività svolte: circa 900 mila colloqui avviati, 388 mila patti di servizio sottoscritti, 145 mila piani di attivazione redatti dai navigator per individuare i percorsi di formazione e di potenziale inserimento lavorativo coerente con le caratteristiche degli interessati. Non vengono segnalate le opportunità di lavoro effettivamente offerte e le accettazioni o i rifiuti da parte degli interessati. Dalla banca dati delle Comunicazioni obbligatorie sulle assunzioni da parte dei datori di lavoro si evince che 352 mila persone transitate nel reddito di cittadinanza sono state contrattualizzate e che, tra queste, 192 mila sono ancora formalmente occupate. Gli incentivi effettivamente erogati ai datori di lavoro che hanno assunto persone con il rdc sono stati meno di 500. Del tutto evidente come queste assunzioni, due terzi delle quali con contratti a termine, siano avvenute a seguito di ricerca spontanea operata dagli interessati, con tutta probabilità percettori di assegni del Rdc di basso importo, senza nessun nesso causale o temporale con le iniziative di politica attiva messe in campo dai navigator.

Ebbene, allo stato attuale questo è concretamente il Reddito di cittadinanza, una misura utilizzata da circa 1,25 milioni di nuclei familiari, che è stata ampliata ad altri 260 milal con l’introduzione di un Reddito di emergenza temporalmente limitato, per i nuclei familiari con meno di 15 mila euro di reddito. L’impatto del Rdc nel corso della crisi Covid potrà essere meglio valutato nei prossimi mesi a seguito dell’aggiornamento dell’indagine Istat sull’andamento dei redditi delle famiglie. Il flusso delle risorse per fini assistenziali da parte dello Stato e delle istituzioni locali è aumentato in modo consistente ed è assai probabile che proseguirà anche nell’anno in corso, per far fronte all’impatto economico e sociale dell’emergenza sanitaria.

In questa condizione rimane difficile immaginare una riforma radicale dell’attuale Rdc. Tuttavia, oltre al perfezionamento dei controlli per l’accesso alle prestazioni, e al superamento delle discriminazioni operate verso una quota rilevante degli immigrati lungo soggiornanti in Italia, è possibile immaginare un percorso di razionalizzazione degli interventi attualmente previsti in due specifici ambiti: il sostegno ai carichi familiari e le politiche attive del lavoro.

L’introduzione dell’assegno unico per il sostegno dei minori in carico alle famiglie, comprese quelle fiscalmente incapienti, che la Legge di bilancio prevede di far partire dal 1ç luglio 2021, è in grado di offrire un contributo stabile e più efficace per prevenire i rischi di impoverimento delle famiglie. Le politiche attive del lavoro per i beneficiari del Rdc, anche alla luce di quanto sta accadendo nel mercato del lavoro, dovrebbero essere ricondotte nell’ambito di quelle più generali dedicate alle persone in cerca di lavoro e con profili di bassa occupabilità. E che devono prioritariamente essere aiutate a reinserirsi nel mercato del lavoro sfruttando tutte le opportunità di lavoro disponibili nel rispetto dei contratti collettivi di lavoro. L’istituto del Reddito di cittadinanza verrebbe in questo modo ricondotto alla finalità di contrastare le varie cause della povertà, per alcune delle quali, come le dipendenze da droghe, alcool, ludopatie, è persino sconsigliabile una modalità di intervento basata sui sussidi finanziari.

Tutti interventi ragionevoli, e per certi aspetti obbligati alla luce delle innovazioni normative e dell’evoluzione del mercato del lavoro. Ma certamente incompatibili con le finalità clientelari che hanno caratterizzato i primi due anni di gestione del Reddito di cittadinanza.

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